L’atto di fissare due simultaneità: la misurazione umana del tempo (29/40)

Se noi dicessimo che al termine di un tempo t accadrà l’evento n, noi non faremo altro che contare fino a quel punto. Conteremo un certo numero di t, t1, t2, t3, … e cioè conteremmo simultaneità ovvero configurazioni spaziali. Immaginate una telecamera che si sposta lentamente in una cucina. La prima simultaneità conterrà “la sedia, il tavolo, una porzione dei fornelli, qualche utensile”, la seconda simultaneità conterrà “una porzione della finestra, della sedia, dei fornelli, della tv, del lavabo” e così via. Anche se il Movimento aumentasse la sua velocità fino ad avvicinarsi a quella della luce, nulla cambierebbe nel nostro modo di percepire le cose. Continueremo sempre a contare le porzioni di divenire riprese della telecamera

Noi confondiamo lo spazio con il tempo, passando indiscriminatamente dalla parola/concetto “giustapposizione” alla parola/concetto “successione”.

Seppur noi riuscissimo a notare l’esatto momento del passaggio, la simultaneità di due arresti virtuali: inevitabilmente finiremmo col raffrontare l’arresto di quell’oggetto in movimento con l’arresto di un altro oggetto il cui movimento rappresenterà la corsa del tempo. Detto altrimenti, giustapporremo nello spazio due arresti virtuali, due immobilità finte che corrispondono invece ad un’unica simultaneità. Però noi, arbitrariamente, stabiliamo che all’arresto di un oggetto in movimento, una lancetta, un pendolo, la terra, una nuvola, corrisponde la corsa del tempo.

Il tempo corre come una gazzella, una pantera, un corridore, una fuoriserie, una lancetta, un pendolo, una nuvola. Ma per scorrere e prolungarsi senza fine dal passato al futuro ha bisogno comunque di essere tutto intero, come se avessimo già dinnanzi a noi tutto il filo srotolato e con il movimento della testa e degli occhi ci spostassimo da destra a sinistra, o viceversa, per vedere lo scorre del tempo. Ma le parti che vi distinguiamo non sono altro che quelle di uno spazio che è già tutto svolto e che continuiamo a dividere.

Lo spazio dovrebbe disegnare delle tracce di questo movimento. Noi passiamo continuamente dallo svolgersi, dal tempo reale, dall’accadere, al già svolto e cioè alla misurazione, all’enumerazione di ciò che si svolge. Ciò che si svolge diventa passato perché di esso ne facciamo una rappresentazione. Dallo svolgersi passiamo al già svolto.

Immaginiamo il semplice atto di verificare la simultaneità tra un fenomeno, la corsa di un velocista, e un momento dell’orologio. Non facciamo altro che fissare, nel divenire reale della “nostra durata”, le simultaneità tra questi momenti (velocista-lancetta orologio) e i momenti della nostra durata che diventeranno istanti, cioè saranno spazializzati, dall’atto stesso di fissarli. È nient’altro che l’atto stesso di fissare la simultaneità di due simultaneità, quella della linea virtuale che usiamo per misurare il tempo e quella della simultaneità reale che agganciamo alla prima. È dunque la simultaneità tra due istanti, di due movimenti esterni a noi, che ci mette in grado di misurare il tempo. È la simultaneità tra questi momenti e i momenti da essi fissati lungo il corso della nostra durata interna a far sì che questa misura sia una misura di tempo. È la simultaneità di due istanti, di due movimenti esterni a noi, che ci consente di misurare il tempo. Lancetta di orologio e un evento qualsiasi sono due fenomeni esterni. Ma siamo sempre noi, con il nostro modo di percepire e rappresentarci le cose che uniamo i due fenomeni, facendo sì che tutto ciò diventi misura del tempo.

Ciò che rende un oggetto di una determinata dimensione, diverso da un altro, è soltanto il rapporto tra le dimensioni. La nostra immaginazione considera la simultaneità (di una particolare configurazione di un particolare oggetto, per esempio quella) di un orologio vicino ad un altro, come la stessa che ci sarebbe tra un orologio situato a 1000 km di distanza. Anche se avremo due “tempi reali” diversi, abbiamo bisogno, per esigenze pratiche, di averne uno ed uno solo: un tempo spazializzato. Bergson ritiene che la dimensione (nel senso di grandezza) non sia un assoluto e che ci siano solo rapporti tra dimensioni. Tutto avrebbe luogo anche in un universo rimpicciolito se fossero mantenute le relazioni tra le parti. Noi passiamo da una distanza piccola (quella dei due orologi vicini) ad unagrande (un orologio a noi vicino con quello di uno 1000 km distante) con estrema facilità. L’importante, è per la nostra mente, che i rapporti tra le parti siano conservate. Indipendentemente dalla distanza che corre tra i due oggetti.