Simultaneità (28/40)

Se lo scorrere del tempo, la durata, è interna, cosa esiste della durata fuori di noi? Il presente, cioè la simultaneità. «Le cose esterne cambiano senza dubbio ma i loro momenti si succedono solo per una coscienza che li ricordi. Al di fuori di noi in un momento dato osserviamo un insieme di posizioni simultanee: delle simultaneità precedenti non è rimasto più nulla. Porre la durata nello spazio significa con una vera e propria contraddizione collocare la successione all’interno della simultaneità. E quindi non si deve dire che le cose esterne durano ma piuttosto che in esse c’è una qualche inesprimibile ragione in virtù della quale non potremmo considerarle in momenti successivi della nostra durata senza constatare che sono cambiate»[i].

Lì, fuori, c’è solo il presente. Simultaneità. Le cose là fuori cambiano, ma i loro mutamenti avvengono in successione solo per una coscienza in grado di ricordarli.

Adesso, lì fuori, osservo un insieme di posizioni simultanee, ma delle simultaneità precedenti non resta niente, se non nei miei ricordi. Ma non riesco a non cedere alla tremenda tentazione di collocare la successione anche lì fuori ove tutto è simultaneità. Dentro me, nella mia coscienza, senza distinguersi, si succedono stati. Fuori nello spazio, avremo simultaneità che senza succedersi si distinguono: quando ne appare una, l’altra non c’è più. Fuori abbiamo l’esteriorità senza successione. Dentro abbiamo la successione senza esteriorità.

È la coscienza ad introdurre la successione, la sequenzialità, la serialità nelle cose esterne, così come le cose esterne ci fanno proiettare fuori i nostri stati interni, giustapponendo gli uni agli altri così come accade agli oggetti fuori di me: ne vedo prima uno, poi un altro. Così come ritagliamo, segmentiamo la simultaneità esterna in oggetti e fatti distinti (quando l’uno accade l’altro ha smesso di accadere) così segmentiamo i nostri stati interni che sono messi in successione. Endosmoticamente, il dentro e il fuori si omologano, misuro lo spazio esterno segmentandolo e mettendolo in successione, misuro e segmento il fluire e lo scorrere degli stati interni mettendoli in successione. Introduco la successione nella simultaneità.[ii]

Lo schema generale del nostro modo di abitare il mondo, consiste da un lato, nell’introdurre la successione nelle cose esterne e, dall’altro, inversamente, queste stesse cose esterne, esteriorizzeranno, gli uni rispetto agli altri, in momenti successivi, l’unità dei nostri stati interni. È l’idea (contraddittoria) della successione nella simultaneità.

Quando seguo con gli occhi sul quadrante di un orologio il movimento della lancetta mi limito semplicemente a contare la simultaneità dei punti del quadrante stesso.[iii]

Tendenzialmente la nostra conoscenza delle cose è orientata dal profitto, è una conoscenza pratica.

La metafisica, secondo Bergson, non implica il soddisfacimento di nessuna esigenza pratica, utilitaristica e ciò la preserva dalla necessità di tradurre le intuizioni in simboli, in linguaggio, ci sono delle realtà non traducili in un linguaggio concettuale.

L’intuizione in un certo qual modo punta proprio al divenire autentico. Mentre la scienza punta alla mobilità costruita simbolicamente, concettualmente che in realtà è soltanto immobilità, virtualità, spazio geometrico.

La scienza concepisce il mutamento come un risultato riconducibile ad una relazione tra cause ed effetti, qualcosa che antecede, prima e che produce, successivamente, delle conseguenze. Questa concezione consente una visione del mondo sostanzialmente reversibile, il mutamento è reversibile. La realtà, come totalità è vista come un insieme di parti, di porzioni, parti disposte in un certo posto e tale disposizione determina la logica delle future disposizioni di questa realtà. Il futuro in questo modo è prevedibile, proprio a partire dall’attuale configurazione delle cose. Il presente mi dice già come sarà il futuro. Il futuro in tal senso diventa noioso, privato di ogni possibile novità.

Lo scontornamento che operiamo sulla realtà, il disegno che tratteggiamo sulla realtà è solo il disegno delle nostre azioni possibili su questa realtà, è la progettazione che noi facciamo delle azioni (utilitaristiche, finalizzate a rispondere alle nostre esigenze di pratiche) su questa realtà. L’universo non ha dei contorni definiti, li acquista solo in funzione dell’azione possibile che noi potremmo esercitare su di esso, se tale azione fosse abolita, i corpi sarebbero assorbiti nel silenzio dell’inutilità.


[i] Bergson H., Saggio sui dati immediati della coscienza, Raffaele Cortina Editori, Milano, 2002, p. 140.

[ii] Bergson H., Saggio sui dati immediati …, op. cit., p. 144.

[iii] «Fuori di me, nello spazio vi è un’unica posizione della lancetta e del pendolo in quanto non resta nulla delle posizioni passate. […] Mi rappresento ciò che io chiamo le oscillazioni passate del pendolo, nello stesso tempo in cui percepisco l’oscillazione attuale, proprio perché io duro in questo modo. Sopprimiamo ora l’io che pensa queste cosiddette oscillazioni successive e avremo sempre una sola oscillazione del pendolo, anzi una sola posizione di questo pendolo, e quindi nessuna durata». Bergson H., Saggio sui dati immediati della coscienza, Raffaele Cortina Editore, Milano, 2002, p. 71. «Ognuna delle fasi successive della nostra vita cosciente corrisponde ad un movimento della lancetta ad esso simultaneo. Questi movimenti sono nettamente distinti, quando uno si produce, l’altro non c’è più, ed è per questo che ci abituiamo a stabilire la stessa distinzione anche tra i momenti successivi della nostra vita cosciente. Le oscillazioni del bilanciere la scompongono per così dire in parti esterne le une alle altre, le oscillazioni pendolari, che sono distinte solo perché quando appare l’altra si dissolve, traggono in qualche modo vantaggio dall’influenza che così hanno esercitato sulla nostra vita cosciente. Grazie al ricordo del loro insieme che la nostra coscienza ha organizzato, esse si conservano per poi allinearsi: insomma, noi creiamo per loro una quarta dimensione dello spazio, che chiamiamo il tempo omogeneo, e che permette al movimento pendolare, sebbene si produce sempre nello stesso luogo, di giustapporsi indefinitamente a se stesso.» Bergson H., Saggio sui dati immediati…, op. cit., p. 72.