Godere della decifrazione (27/28)

Chiunque domandi un’analisi lo fa perché sta male, perché soffre. Sembra banale ricordarlo, ma non lo è.

Qualcuno che chiede aiuto lo fa perché soffre, perché è angosciato, perché non riesce ad andare avanti.

«La sofferenza ci minaccia da tre parti: dal nostro corpo che, destinato a deperire e a disfarsi, non può eludere quei segnali di allarme che sono il dolore e l’angoscia, dal mondo esterno che contro di noi può infierire con forze distruttive inesorabili e di potenza immane, e infine dalle nostre relazioni con altri uomini. La sofferenza che trae origine dall’ultima fonte viene da noi avvertita come più dolorosa di ogni altra». [i] Tanto che per l’essere umano «il compito di evitare il dolore relega sullo sfondo quello di procurarsi il piacere»[ii].

Il dolore è sempre un dolore nel corpo, che non vuole dire che esso si esaurisce nell’organismo, ovvero nel corpo biologico, anche quello necessita di soggettività, viene cioè in qualche modo soggettivizzato, passato al vaglio del linguaggio. L’angoscia non è un dolore come quello che si può provare se picchiamo il ginocchio contro lo spigolo di un tavolo.

Anche se il sofferente è «uno che soffre del suo corpo e del suo pensiero»[iii].

Ma la sofferenza è uno stato somatico, una sensazione corporea, non una ideazione, una parola, un’immagine, un significante.

Si può stare meglio grazie al gaio sapere ovvero al saper «godere della decifrazione»[iv] dell’inconscio, ovvero congiungendosi con il proprio desiderio inconscio.

Quindi se all’inizio Lacan è ottimista circa il potere che la parola può avere sulla sofferenza e sul godimento, ad un certo punto, l’ipotesi di fondo diventa che il reale non include il senso e ciò fa scricchiolare l’intero sistema della psicoanalisi.

Le parole non hanno presa sulle cose. Il godimento è inafferrabile attraverso la nominazione. Ma come può la psicoanalisi allora lavorare a partire dalla parola?

La psicoanalisi ci permette di mettere in chiaro l’inconscio, di chiarire l’inconscio di cui siamo soggetti, di ritrovarsi nell’inconscio come struttura.[v]

La tristezza, descritta a volte come depressione, è una viltà morale, un peccato che è in rapporto al pensiero, ovvero «al dovere di ben dire, dire bene di trovare vantaggio dal ritrovarsi nell’inconscio, nella struttura».[vi]

C’è etica solo nel dire bene. Il ritrovarsi nell’inconscio è una questione etica.

Quindi l’unica arma contro la tristezza è il “gaio sapere”, il gay sçavoir, che implica, un certo modo di rapportarsi al linguaggio, che non comporta la comprensione, ma uno sfioramento del senso, “rasentarlo più che si può senza che faccia da vischio”, cioè senza che sia troppo appiccicoso. Questo conduce ad un “godere della decifrazione”.

Ma come si fa a “portare in chiaro l’inconscio, «tirer au claire», come se si dovesse sciogliere un enigma, tirer au claire, schiarire qualcosa di opaco, qualcosa che va lucidato, delucidato? La tristezza è l’effetto della disgiunzione dal desiderio inconscio che subisce un’interruzione o non funziona più.


[i] Freud S., Il disagio della civiltà, OSF, vol. 10, p. 568-69.

[ii] Ibidem.

[iii] Lacan J., Televisione, Altri scritti, Einaudi, Torino, 2013, p. 508.

[iv] Lacan J., op. cit., p. 521.

[v] Cfr. Lacan J., Televisione, Altri scritti, Einaudi, Torino, 2013.

[vi] Televisione, p. 83 parte IV] CITAZIONE DA TROVARE