Ritrascrivere qualcosa di non trascrivibile (20/23)

Lacan sottolinea che ripetere (wiederholen) e riprodurre (reproduzieren) sono due parole profondamente diverse tra loro.

La riproduzione del proprio sintomo implica la riproduzione dell’identico, così come si può riprodurre una pagina di un libro facendo una fotocopia o ricopiando un quadro.

La ripetizione mette in gioco qualcosa di differente rispetto alla scena originaria che viene ripetuta.

Nella relazione con l’altro, il passato si insinua nel presente, si ripete, ma la ripetizione è anche una forma di resistenza rispetto alla possibilità di guarire, di porre rimedio, di trovare un’alternativa al proprio dolore; e quanto più forte è questa resistenza più prepotentemente la ripetizione prende il posto della traccia mnestica alla quale è legato, quel determinato stato somatico che chiamiamo dolore.

Nella ricerca disperata dell’oggetto perduto, di quella identità di percezione che non arriva mai, di quella scena originaria irrappresentabile, è implicito il tentativo drammatico di ritradurre quell’intraducibile, ogni volta in modo diverso, senza perseguire necessariamente una ripetizione troppo fedele; solo così è possibile una elaborazione dello stato somatico, per certi versi insostenibile, associato alla scena.

La ricerca inarrestabile dell’oggetto perduto produce qualcosa di incompiuto, di non realizzato. È a questo processo che siamo sottomessi.

La resistenza che ogni terapeuta incontra nel trattamento dei suoi pazienti, la resistenza con la quale ognuno di noi è costretto a fare i conti tutte le volte che prova a cambiare il corso della propria vita, che prova a ribellarsi a quello che sembra essere il proprio destino, è un blocco della parola, un inceppamento della catena significante, è un percorso rappresentativo impossibile da percorrere perché ciò che è in gioco è qualcosa di non rappresentabile.

È davanti a questo impossibile che la psicoanalisi si arresta.

La traccia non appartiene più all’ordine del rappresentabile.[i]

Frammenti di ricordi legati forse ad eventi apparentemente insignificanti, ai quali è legato un certo stato somatico.

Freud quando parla di ripetizione, di coazione a ripetere parla di pulsione di morte, di una irrefrenabile spinta che conduce da qualche parte, all’inorganico come se l’inorganico fosse l’unica dimensione senza dolore.

La coazione a ripetere è il tentativo disperato di difendersi dal ritorno di rappresentazioni spiacevoli, insostenibili, che alterano l’omeostasi disorientando pesantemente il soggetto, è un processo slegato da tutto, che si subisce, che si impone e contro il quale non è possibile fare nulla, in questo senso è un processo che sembra comandato da una spinta all’autodistruzione, al ritorno all’inorganico, alla morte, quasi come se, arrivando alla fine, alla morte si possa poi finalmente rinascere alleggeriti da quel peso insostenibile, come se la pulsione di morte indicasse l’unica strada possibile per un vero cambiamento.

La ripetizione è l’estremo tentativo di sopperire a quella mancata simbolizzazione, è l’estremo tentativo di far luce su quelle rovine di cui parlava Freud, per meglio comprendere quei frammenti di ricordi, quelle reminiscenze preistoriche inscritte nella nostra nebbia interiore.

La ripetizione è un tentativo drammatico di padroneggiare la traumaticità di questi ricordi. La ripetizione dello stesso sintomo rappresenta il tentativo di elaborare qualcosa di non elaborabile e dopo ogni fallimento sorge un sentimento di “inevitabilità”, la percezione terrificante di una tendenza destinale immodificabile. La lotta ingaggiata contro questo destino costringe a ripetersi, nel disperato tentativo di perseguire un cambiamento. Cioè si traduce in sorta di “compulsione a simbolizzare”, per dirla con Groddeck e Ferenczi. Una spinta a dare senso anche dove senso non c’è, dove c’è solo l’insensato di un particolare, forse in-significante, ma traumatico.

La ripetizione è un tentativo di ritrascrivere qualcosa di non trascrivibile, è un processo insensato, cieco, acefalo, che si caratterizza per la mera ripetizione di catene associative intrecciate a stati somatici, tentativo incessante di riscrivere una certa scena non-scrivibile.

Proprio come ‘l’automatismo della ripetizione (Wiederholungszwang)’ che si produce per «l’insistenza della catena significante»[ii], reinterpretazione di un concetto classico della psichiatria, quello di “automatismo mentale” di Clérambault che nel 1920 scrisse a tal proposito: «il pensiero diviene estraneo in una forma indifferenziata e non in una forma sensoriale definita: la forma indifferenziata è costituita da una mescolanza di astrazioni e di tendenze, sia con elementi sensoriali, sia con elementi plurisensoriali a volte vaghi e frammentari»[iii].

L’automatismo mentale comporta una certa “estraneità”, è un processo autonomo, qualcosa che si impone, che con insistenza ritorna, è l’impossibilità di cambiare la forza destinale che si impone, mortificandoci e distruggendo ogni tentativo di simbolizzare quel punto che insiste, che si impone come parola d’ordine che apre meccanicamente a dei paesaggi somatici.

Ritorna qui in gioco la differenza tra processi primari e secondari dove questi ultimi sono determinati da legami psichici in grado di rendere possibile una rappresentazione dei vissuti percettivi. Nei processi primari assistiamo ad una débâcle rappresentativa che favorisce l’emersione delle tracce sensoriali, vissuti che pur incidendo, pur creando dei solchi, marche a livello psichico, sono non soggettivate, non sono simbolizzabili, parliamo di tracce che tornano, vanno via e poi tornano nuovamente per insinuarsi, per infiltrarsi nella vita, micro-anime penitenti in cerca di pace che chiedono di essere liberate attraverso la simbolizzazione, ma tale simbolizzazione risulta impossibile.

Ecco di nuovo la coazione a ripetere, che si ripete proprio in virtù di questo fallimento, cioè in virtù del fallimentare tentativo di rappresentare l’irrappresentabile.

L’irrappresentabile crea le condizioni di ciò che sembra inevitabile, destinale, necessario, non può non essere così, è il sintomo, qualcosa che si impone nel soggetto, qualcosa che è per certi versi estraneo, proprio come accade con le allucinazioni: in questo inevitabile destino è iscritto qualcosa del fallimento, della perdita, è una sconfitta.

Freud quando parla di perturbante lo fa dicendo che l’angoscia emerge proprio dalla ripetizione di qualcosa che ritorna ancora e ancora una volta, identico a sé stesso. È uno stato somatico evocato da determinate traiettorie associative, è una rete associativa, un grappolo di rappresentazioni che impone un certo tono affettivo; non solo il tono affettivo ma anche le associazioni non elaborabili, non simbolizzabili, si impongono.

Il perturbante è qualcosa di spaventoso, che angoscia, che inorridisce. Freud ne parla a partire da un libro di Jentsch[iv], che secondo Freud si è soffermato soprattutto sulla relazione tra il perturbante e il nuovo, l’inconsueto, lo sconosciuto. Per Jentesch il perturbante è l’effetto dell’incertezza intellettuale, qualcosa di cui non ci si raccapezza, se ci si orienta nel mondo tanto meno si avranno turbamenti. Freud mette in discussione o comunque ritiene riduttiva l’equazione ‘perturbante = inconsueto’, cioè, non tutto ciò che è nuovo è spaventoso. Freud fa una lunga digressione linguistica sul termine perturbante.[v]. Lacan ne parla nel Seminario X. Il termine heimlich si articola a partire da due traiettorie rappresentative contrastanti: da un lato abbiamo la familiarità, l’agio, e dall’altra il nascondere, il tener celato. Heimlich, confortevole, acquisisce un significato ambivalente, fino a coincidere con il suo contrario, unheimlich, perturbante e citando Schelling, dice che Unheimlich «è tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto, e che è invece affiorato»[vi]. Secondo Freud, tra le cose che possono indurre l’angoscia c’è un gruppo di frammenti psichici nel quale c’è qualcosa di rimosso che ritorna. Qualcosa di familiare. Secondo Freud sono queste cose angosciose che formerebbero il perturbante.

Il problema della realtà materiale di ciò che ritorna non è secondo Freud rilevante, quello che conta è la realtà psichica. C’è la rimozione di un contenuto e c’è il ritorno del rimosso. «Il perturbante che si sperimenta direttamente si verifica quando complessi infantili rimossi sono richiamati in vita da un’impressione, o quando convinzioni primitive superate sembrano aver trovato una nuova convalida»[vii]. L’Unheimliche è l’inaspettata irruzione di qualcosa di indeterminato, che si palesa come pericoloso, vago e famigliare allo stesso tempo, qualcosa che ci appartiene, che abita in noi, intimamente, (Heim, significa dimora), è qualcosa di iscritto nelle nostre viscere, nel nostro corpo, è la libido, è la pulsionalità che ci attraversa come singolarità organismiche irripetibili.

È qualcosa di indicibile, di non collocabile, è il punto di congiunzione tra il desiderio e l’angoscia.

È qualcosa di visceralmente invischiato nel nostro corpo dal quale tuttavia siamo costitutivamente separati. Quando questa mancanza manca emerge l’angoscia, ci dice Lacan.[viii]

La coazione a ripetere si installa proprio sulla impossibilità di trascrivere questo quantum pulsionale nella propria storia personale.

Essa è la scintilla di quel cortocircuito tra realtà storica e realtà psichica, come se questa ultima fosse osmoticamente intrecciata con una percezione esperienziale iscritta nel corpo, impossibile da tradurre, da ritrascrivere nella propria storia personale.

La traccia esperienziale apre un solco, una scrittura affettiva che catalizza la coazione a ripetersi e il destino che si impone in quella ripetizione. Percezioni, affetti, sensazioni intraducibili, dispiaceri somatici primitivi, reminiscenze somatiche non metabolizzabili, intraducibili e non trascrivibili nella propria storia.


[i] «[…] proprio come l’archeologo ricostruisce i muri dell’edificio dai ruderi che si sono conservati, determina il numero e la posizione delle colonne dalle cavità del terreno, e ristabilisce le decorazioni e i dipinti murali di un tempo dai resti trovati fra le rovine, così procede l’analista quando trae le sue conclusioni dai frammenti di ricordi, dalle associazioni e dalle attive manifestazioni dell’analizzato.» Freud S., Costruzioni in analisi, OSF, Vol. 11, p. 543.

[ii] «La nostra ricerca ci ha condotto al punto di riconoscere che l’automatismo della ripetizione (Wiederholungszwang) prende il suo principio in quello che noi abbiamo chiamato l’insistenza della catena significante». Lacan J. (1955), «Il seminario su La lettera rubata», in Scritti, vol. II, a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1974, p. 7

[iii] De Clérambault G.G. (1942), Oeuvres Psychiatriques, P.U.F., Paris. p. 343.

[iv] Jentsch E., Zur Psychologie des Unheimlichen , Psychiat.-neurol. Wschr., vol. 8, 195 (1906),  On the Psychology of the Uncanny  (1906).

[v] La parola tedesca unheimlich (perturbante) implica un’altra parola che è l’esatto opposto, heimlich (confortevole), heimisch (patrio), ovvero: familiare, abituale.  Cioè, dice Freud, la parola heimlich, “tra le molteplici sfumature del suo significato, ne mostra una in cui coincide con il suo contrario, unheimlich.” Freud S., Il perturbante, OSF, vol. 9, p. 86.

[vi] Ibidem

[vii] Freud S., Il perturbante, OSF, vol.9, 110.

[viii] Cfr. Lacan J., Il seminario, Libro X, L’angoscia 1962-1963, Enaudi, Torino, p. 67.