Un tempo che verrà (8/8)

 Il desiderio, nell’ossessivo, è il desiderio dell’Altro, e dato che, per impedire il sorgere dell’angoscia, il desiderio dell’Altro deve essere morto ecco che il desiderio del soggetto viene mortificato, un desiderio che sacrifica il proprio oggetto. Il desiderio dell’ossessivo ha come oggetto la domanda dell’Altro. Egli non vuole sapere nulla del desiderio dell’Altro, infatti se non mortificasse il proprio desiderio allora dovrebbe fare i conti con il desiderio dell’Altro, e ciò per l’ossessivo rappresenterebbe un grave pericolo. L’ossessivo domandandosi cosa l’Altro vuole, crede che l’Altro abbia come obiettivo quello di distruggerlo. C’è sullo sfondo sempre un fantasma di distruzione necessario per sopperire alla carenza dell’Altro, dell’Altro che nella realtà è sempre mancante, zoppicante, bucato, insoddisfacente, incompetente, proprio perché anch’esso desiderante, anch’esso sottoposto alle leggi del desiderio. Ecco la necessità di sostituirlo con un Altro potente, capace, nella sua volontà di godimento, un Altro riconducibile al Super-Io freudiano. Se l’Altro per l’ossessivo è l’altro crudele, malefico nella sua volontà di godimento, egli, dal canto suo finisce per allinearsi magnificamente proprio con lo stile mortifero dell’Altro, diventando a sua volta distruttore dell’Altro.

Ogni volta che il desiderio minimamente si inceppa ciò rimette in moto il fantasma di distruzione e per compensare ciò l’ossessivo investe ostinatamente il campo immaginario, attraverso il fallo immaginario che diventa l’unico supporto del desiderio ma che poi in realtà produce esattamente gli effetti contrari: lo spegnimento del desiderio. Ecco perché l’ossessivo è molto affascinato dal sembiante in genere, ma soprattutto dall’immaginario fallico della potenza, della prestanza performante, del controllo, della forza o dal sapere. Essendo inoltre il fallo il punto di ancoraggio per sostenere la castrazione, l’ossessivo lotta a denti stretti contro la possibilità che esso perda il suo vigore e ciò lo porta ad assumere atteggiamenti di rivalità che spesso possono diventare pericolosi e degradare in veri e propri passaggi all’atto (ricordo la minaccia che Marco fa al suo datore di lavoro impugnando un coltello).

L’ossessivo spesso si  rende protagonista di un processo di degradazione dell’Altro grande ad altro immaginario, ciò per ridurlo allo status di suo simile, destituendolo di quella potenza, che per altro lui stesso gli aveva attribuito e così facendo può impadronirsene.

L’ossessivo si difende dalla questione dell’essere allontanando il desiderio, rilanciandolo ad un tempo successivo, un tempo che verrà. L’ossessivo fa il morto, accetta di essere morto per l’Altro così può essere vivo per se stesso, fino al punto in cui però finisce per non sapere più se è vivo oppure morto. Il desiderio è messo tra parentesi e l’atteggiamento che egli instaura con il mondo è all’insegna dell’indecisione. Essere o non essere? Egli tiene bene a distanza quei significanti che potrebbero dire qualcosa del suo desiderio, li sopprime, li espella, si difende cioè dai pericoli del suo desiderio, camuffandolo con orpelli, zig-zag e circumnavigazioni. Così facendo assicura lunga vita al proprio desiderio ma di fatto impedisce il riconoscimento della stoffa immaginaria di cui è fatto e per questo non riesce mai poi a rinunciarci realmente. Nell’ossessivo la dimensione simbolica diventa assoluta, egli ingaggia una vera e propria crociata a favore di un’alienazione totale dell’essere nel simbolico, un assorbimento senza resto e ciò porta ad una degradazione dell’Altro a Uno, a tutto unificato, nel quale non è possibile vedere una faglia, che apra alla mancanza e al desiderio. Invece, è proprio quella particolarità soggettiva, non assorbita nel registro simbolico, quella parte perduta, che resta, proprio dal ritorno dal simbolico ad essere oggetto causa del desiderio. La mortificazione operata dal linguaggio e la riduzione dell’Altro a superficie liscia senza crepe porta l’ossessivo a preservare l’Altro dal benché minimo rischio di imperfezione, e allo stesso tempo lo spinge ad una ricerca assillante dell’assoluta perfezione.

L’ossessivo anela alla perfetta compattezza dell’Altro, rinunciando per questo a fare una scelta, rinunciando alla propria libertà, come se tutto fosse già giocato, tutto fosse già scritto, ma egli, tanto più evita il godimento come causa di desiderio tanto più lo rende presente. È quel processo che Freud chiama “denegazione”, ossia il fatto di non includere il godimento come vuoto nel simbolico, fa sì che esso ritorni come pieno, come eccesso, come troppo. La dimensione del godimento si presenta come inattesa e in quanto imprevedibile e angosciante viene rifiutata. L’ossessivo non accetta che ci sia qualcosa di non garantito dalla  regola, che  ci  sia  un  margine  di imperfezione.