L’oggetto meno qualcosa (9/14)

Se ammettiamo che il “mondo è tutto ciò che accade” e ciò che accade, il fatto per intenderci, è il sussistere dello stato di cose, diciamo che stiamo ragionando sul di “fuori”, per dir così, ma se, con Wittgenstein diciamo che “l’immagine logica dei fatti è il pensiero”, allora in questo caso parliamo del “dentro”.

Qui di rivoluzionario c’è l’accostamento del concetto di “proposizione” a quello di “immagine”.

Come è possibile sostenere che le proposizioni costituiscono l’immagine logica della realtà? Wittgenstein a tal proposito introduce una rilettura del meccanismo di proiezione proprio della geometria. La proposizione riesce a raffigurare le cose facendo sì che l’oggetto reale-tridimensionale venga riprodotto proiettivamente secondo la profondità formale-geometrica bidimensionale. Al di là di ogni possibile orpello grafico o stilizzazione è possibile sempre ritornare al modello iniziale. Infatti “l’immagine ha in comune con il raffigurato la forma logica della raffigurazione”. Quindi nella raffigurazione non è importante la relazione di somiglianza dei particolari ma l’identità di forma tra quel che raffigura ed il raffigurato, l’esempio classico è quello del plastico nel quale ciò che conta non è la somiglianza degli oggetti ma la relazione delle parti che rappresentano il fatto reale.[i]

Spostiamo l’asse del ragionamento dal di fuori oggettuale e dal di dentro rappresentativo. Per dirla con Bergson: ciò che normalmente si chiama fatto non è la realtà così come apparirebbe ad un intuizione immediata ma un adattamento del reale agli interessi della pratica e alle esigenze della vita sociale. Ai nostri scopi, potremmo dire. La pura intuizione, esterna o interna, è quella di una continuità indivisa, noi la frazioniamo in elementi giustapposti che qui rispondono a delle parole distinte, là a degli oggetti indipendenti.[ii]

C’è un passaggio dall’immediato all’utile, dalla purezza dell’informe irrappresentabile a ciò verso il quale abbiamo interesse. Il percepire finisce con l’essere soltanto un’occasione per ricordare del fatto che noi misuriamo praticamente il grado di realtà dal grado di utilità.[iii]

Si potrebbe sostenere l’idea che la forma logica della raffigurazione, così enigmatica, possa essere intesa più propriamente come il valore di utilità che una certa porzione della realtà può avere e cioè, per dirla ancora con Bergson, di ciò verso il quale proviamo interesse. Se ogni proposizione raffigura uno stato di cose, nel senso di relazione di cose, ed è dunque vincolata alle leggi della proiezione (immagine in quanto proiezione della relazione di uno stato di cose) la forma logica interna della proiezione potrebbe essere nient’altro che l’utile, le esigenze utilitaristiche, l’interessante.

Ed il resto? È sempre altrove, dove c’è disinteresse per l’utile, è l’altrove incarnato nella rêverie delle libere associazioni di idee, ciò di cui qui ed ora, non desta la mia attenzione.

Per dirla con Deleuze, la percezione non è, allora, l’oggetto più qualcosa, ma l’oggetto meno qualcosa, meno tutto ciò che non ci interessa.[iv] Disinteressarsi dell’utile, volgere lo sguardo altrove, non indietreggiare dinanzi al caos dell’irrappresentabile movimento del divenire, non cedere alle paure dello spaesamento…


[i] Qualcosa di simile dice Peirce: «La rappresentazione è il momento iconico della costituzione del segno. Come icona la rappresentazione consiste in una visione o immagine organizzata significante in virtù della sua propria natura interna, ovvero in virtù della sua forma – l’immagine organizzata che avanza un’ipotesi sull’oggettività». Charles Sanders Peirce, Opere, Massimo A. Bonfantini (a cura di), pag. 21, Bompiani, Milano, 2003

[ii] H. Bergson, Materia e memoria, Editori Laterza, 2004, Roma-Bari, pag. 154

[iii] Ibidem, pag. 53

[iv] G. Deleuze, Il bergsonismo e altri saggi, a cura di Pier Aldo Rovatti e Deborah Borca, Einaudi, 2001, Torino, pag. 14.