L’identità di percezione

Fonte: Jacques Lacan, Il Seminario – Libro XI – I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi 1964, Enaudi, Torino, 2003, p. 67-68.

[…]

Darò più avanti i fatti che suggeriscono come, in certi momenti di quel monologo infantile che è imprudentemente qualificato come egocentrico, quelli che si osservano sono giochi propriamente sintattici. Tali giochi derivano dal campo che chiamiamo preconscio, ma costituiscono, per cosi dire, il letto della riserva inconscia – da intendersi nel senso di riserva indiana, all’interno della rete sociale.

La sintassi, certo, è preconscia. Ma quello che sfugge al soggetto è il fatto che la sua sintassi è in rapporto con la riserva inconscia. Quando il soggetto racconta la propria storia, agisce, latente, ciò che comanda su questa sintassi e la rende sempre più stretta. Stretta rispetto a che cosa? Rispetto a quello che Freud, fin dall’inizio della sua descrizione della resistenza psichica, chiama un nucleo.

Dire che questo nucleo si riferisce a qualcosa di traumatico è solo approssimativo. Dobbiamo distinguere rispetto alla resistenza del soggetto questa prima resistenza del discorso, quando questo va stringendosi attorno al nucleo. Poiché l’espressione resistenza del soggetto implica troppo un io supposto, e non è certo – quando ci si avvicina a questo nucleo – che esso sia qualcosa di cui possiamo essere sicuri che la qualifica di io sia ancora fondata.

Il nucleo deve essere designato come del reale – del reale in quanto l’identità di percezione è la sua regola. Al limite, esso si fonda su ciò che Freud indica come una sorta di prelevamento, che ci assicura che siamo nella percezione grazie al senso di realtà che l’autentifica. Che cosa vuol dire, se non che, sul lato del soggetto, questo si chiama destarsi?