Libero arbitrio come capacità di dire no! (9/15)

La coscienza nucleare (riconducibile al funzionamento del tronco encefalico) rappresenta internamente la fonte della consapevolezza, quello che potremmo descrivere come la sensazione di esserci, di vivere, di essere vivi. Tale sorgente interna non monitora soltanto le sensazioni corporee nel presente, lo stato vitale del proprio corpo, essa è fondamentale anche per la nostra attività motoria. La percezione cosciente ha lo scopo di guidarci verso l’azione, ma anche di renderci note (consapevoli) gli stati corporei, somatici, emozionali.[i] In questo senso possiamo dire che la coscienza nucleare ci orienta nello spazio, cioè ci guida nelle nostre azioni a partire da un processo di attribuzione di valore alle nostre percezioni.

I sistemi che controllano le emozioni di base attribuiscono un certo valore alla sensazione corporea per poi garantire una certa reazione, una certa azione, mediante l’attivazione dei programmi azionali istintivi, prestrutturati a volte compulsivi.

Possiamo dire che a questo livello, la configurazione della coscienza, lascia poco spazio alla scelta individuale, cioè, in questo caso siamo inscritti in una serie di meccanismi che ci passivizzano attraverso dei veri e propri programmi motori, che agiscono con o senza il nostro volere. È questo un livello più primitivo della coscienza dove manca il libero arbitrio. L’essenza del «libero arbitrio» sembra giocarsi soprattutto a partire dalla capacità di inibizione, cioè grazie alla capacità di riuscire a scegliere di non agire, di prendere le distanze, di essere critici nei confronti di queste reazioni somatiche, piuttosto che di agire facendo quel che si vuole liberamente. Il libero arbitrio consiste proprio nel saper interferire con questo meccanicismo, cioè nel riuscire a scegliere di non fare ciò che è prestabilito meccanicamente dai programmi motori. Quindi, il tratto differenziale più importante dell’animale uomo è proprio la capacità di inibire, la capacità di scegliere di non eseguire meccanicamente una reazione. Il corpo è dotato di meccanismi omeostatici che assicurano un certo equilibrio dei vai parametri (ossigeno, temperatura, glucosio…). La consapevolezza del nostro corpo è garantita dal sistema muscolo-scheletrico, ovvero il sistema sensomotorio che viene proiettato sulla superficie corticale del prosencefalo fornendo una mappatura del corpo in movimento. Quindi abbiamo diverse mappe del nostro corpo, una di queste la troviamo nel tegmento dorsale e nel tetto del tronco encefalico superiore, qui si avrebbe una prima rappresentazione grezza del proprio corpo ed un composto risultante dalla combinazione del corpo esterno e quello interno, è in questa area cerebrale che andrebbe a costituirsi il Self, ovvero il Simple Egolike Life Form di Panksepp (1985). Panksepp è noto per essere il principale studioso delle neuroscienze affettive che propongono un nuovo punto di vista che vede gli affetti come causati dall’attività delle strutture sottocorticale profonde dei mammiferi. Secondo questo autore (e MacLan) molte sono le ricerche a favore dell’ipotesi che le emozioni sorgono lungo le vie sottocorticali che controllano i processi viscerali, meglio conosciuto come sistema limbico. Panksepp ci propone una definizione del sistema emozionale fondato su dei processi primari (primary-process) del sistema emozionale cerebrale. Pochi stimoli sensoriali possono accedere incondizionatamente al sistema emozionale che può dar luogo ad una reazione istintuale così come può modulare gli input sensoriali. Il sistema emozionale ha un funzionamento a feedback positivo che può sostenere l’eccitazione emotiva nel tempo, inoltre questo sistema emozionale può essere modulato dagli input cognitivi, può modificare e incanalare l’attività cognitiva. Le emozioni dunque hanno origine dalla parte antica del cervello, la parte preverbale.[ii]


[i] Ci spostiamo continuamente tra l’istante presente, dove si svolge l’azione e il ricordo delle rappresentazioni. Il richiamo alla coscienza delle rappresentazioni coinvolge sensazioni conservate sotto forma di «marcature somatiche». Ai ricordi è associata una sensazione percepibile a livello corporeo. Quante volte ci capita di essere consapevoli degli stati somatici associati mentre riemerge una rappresentazione o una percezione? William James sosteneva che uno stimolo esterno, nell’attivare il sistema sensoriale oltre a produrre una percezione viene associato anche a una risposta somatica. Lo stimolo associato ad uno stato somatico sarebbe in questo caso la base della percezione di un’emozione. In Principi di psicologia (1890) James ci mostra questa ipotesi attraverso alcuni esempi: «Io non so immaginare qual genere di emozione di paura rimarrebbe se non fosse presente il senso, né del pulsare affrettato del cuore, né del respiro superficiale, né del tremor delle labbra o del piegarsi delle gambe, né dalla pelle d’oca, né dei sussulti viscerali. Può qualcuno rappresentarsi uno stato di rabbia senza pensare il sobbollimento del petto, l’arrossare del viso, il dilatarsi delle narici, lo stringere dei denti, l’impulso all’azione vigorosa, ma invece immobili e rilasciati tutti i muscoli, il respiro tranquillo con un placido viso?» [James W., Principi di psicologia, Società editrice libraria, Milano, 1901, p. 753].

[ii] Tale abilità è garantita da strutture presenti nei lobi frontali che inibiscono la compulsività meccanica e primitiva che sopravvive nei nostri sistemi di memoria che appartengono al patrimonio filogenetico e che sono stati appresi nelle nostre esperienze di vita connotate a livello emozionale. Quindi, il tratto caratterizzante la natura umana, da un punto di vista neurocientifico, lo troviamo proprio nella capacità di inibire la nostra meccanicità corporea a partire dalle strutture presenti nei lobi frontali. Quindi, i lobi frontali, ci consentono di ritardare, di rallentare, inibire i nostri processi decisionali a fronte dei programmi d’azione bloccando l’azione immediata. Questo crea uno spazio di pensabilità, quindi un agire senza azione, un atto costruttivo, immaginario. L’esperienza incide massicciamente sullo sviluppo dei lobi frontali.  Le capacità neurochimica di regolare le azioni è garantita dalle figure genitoriali (o chi per esse) che orientano il bambino a modulare nel modo migliore la propria tendenza ad agire. In tal senso i neuroni a specchio (superficie esterna dei lobi frontali e parietali fanno sì che i bambini, come le scimmie, fanno quello che vedono. Se la scimmia fa un gesto, i neuroni della corteccia motoria si attivano mediante un schema neurale riconoscibile alla base di tale azione, stessa reazione neurale è riscontrabile nella scimmia che si limita ad osservare il comportamento di una scimmia che fa quel gesto, semplicemente “immaginandolo”. I bambini internalizzano anche ciò che i genitori dicono loro, usando il meccanismo del “discorso interno”. Le parole, i discorsi dei genitori, sono interiorizzati dai bambini che costruiscono un discorso interno a partire proprio dal linguaggio dei genitori. Il linguaggio funge da potente strumento di autoregolazione.  Lo vediamo soprattutto nei casi di pazienti con lesioni al lobo frontale. Se viene chiesto loro di compiere un’azione, per esempio, “Prendi il libro sul tavolo”, il paziente può dire “Ok, lo prendo” e poi non riuscirci, cioè non riesce ad eseguire l’azione. Se poi gli viene domandato “Cosa ti ho chiesto di fare?”, il paziente può rispondere correttamente: “Mi hai chiesto di prendere il libro sul tavolo” e se si incalza dicendogli “E tu cosa pensi di fare” il paziente risponde “Penso di prendere il libro sul tavolo”, mostrando la sua intenzione di farlo, anche se non ci riesce. In questo caso è evidente lo scollamento tra il sapere e il fare. In questo caso è evidente la perdita della capacità di modulare le proprie azioni a partire dal linguaggio, cioè il paziente non è in grado di usare un programma audioverbale per guidarsi verso il comportamento adeguato a quel programma. In questo senso le istruzioni verbali interiorizzate sembrano essere una funzione dei lobi frontali.