L’ambiente fluisce (26/40)

Siamo, sempre, tutte le volte, orientati verso una direzione, presi in un’azione finalizzata al raggiungimento di un fine. Quel fine da raggiungere è un punto di immobilità, un arresto, un punto di stasi di un movimento che è l’azione stessa. Ma, l’uomo, nell’azione non si interessa al movimento e al tragitto che percorre.  L’uomo è interessato al fine. È interessato alla serie di fini. Da un fine raggiunto a quello successivo. Da un punto di stasi a quello successivo. La nostra attenzione si distoglie dal movimento che si compie per fissarsi esclusivamente sull’immagine prefigurata del movimento compiuto e cioè l’immagine che rappresenta il fine che si vuole realizzare.

La vista coglie il movimento da A in B, come un tutto indivisibile, tuttavia essa suddivide il movimento in una linea percorsa, perdendo la consapevolezza del movimento che percorre. La vista di un movimento coglie la sua traiettoria, la supposta linea percorsa, ma non il reale movimento che si compie. Osservo quella luce abbattersi su quel muro. Adesso scendo le scale. Cammino. E mi avvicino al perimetro irrorato da quel raggio di sole. Mi guardo indietro e riesco solo ad immaginare la supposta linea percorsa ma non riesco in alcun modo a vedere il movimento che percorro. Mi rappresento come una linea, un punto matematico in movimento su un piano.

Il passaggio è un movimento. L’arresto un’immobilità. L’arresto interrompe il movimento, il passaggio non è che tutt’uno con il movimento stesso. Per il solo fatto che ci rappresentiamo il movimento di volta in volta in questi punti differenti, lo arrestiamo necessariamente in essi; le nostre posizioni successive sono infondo solo degli arresti immaginari. Sostituiamo la traiettoria al tragitto, e poiché al tragitto è sottesa la traiettoria, crediamo che coincida con essa.

La prefigurazione di un fine, cioè il risultato dell’azione che sto’ compiendo, è possibile solo se quel fine è rappresentato come immutabile, come una stasi. Sarebbe impossibile precorrere il futuro e avere un obiettivo nel nostro agire se il mondo materiale intorno a noi ci apparisse per quello che è e cioè un continuo fluire e cioè come durata.

L’ambiente reale per Bergson fluisce. Per poter saltare da un istante ad un altro, da un fine ad un altro, da un punto ad un altro punto di stasi, il fluire della materia in torno a noi dovrà essere rappresentato come un passaggio da uno stato all’altro e non come durata. L’uomo per abitare il mondo è costretto ad alterare l’esperienza autentica del divenire, è obbligato a deformare il continuo fluire della durata in una sequenza di punti immutabili, statici, separati gli uni dagli altri. La deformazione di cui parla Bergson è necessaria per far fronte all’azione immediata dell’uomo, alla sua pura organicità, oltre che fondamento del comune senso di leggere il divenire, tale deformazione è anche alla base di molti malintesi filosofici. Cioè la filosofia, come la scienza, crede che la realtà fluida, indivisibile, diveniente, mobile possa essere pensata attraverso la mediazione dell’immobile e cioè attraverso i presunti punti di stasi di quel fluire. La filosofia diventa scienza del fluire e lo strumento di questa nuova scienza è l’intuizione.