Impossibile armonia (3/3)

Altri orientamenti psicoanalitici o psicoterapeutici pongono l’accento sull’importanza del confronto (confrotation) con la realtà ovvero insistono sulla messa a confronto delle pretese impossibili del paziente con la realtà. Per la psicoanalisi lacaniana non si tratta di accompagnare il paziente verso l’accettazione dell’impossibilità di realizzare queste richieste ma occorre far emerge il funzionamento del simbolico schermato dall’immaginario, insomma: c’è qualcosa che manda in tilt la macchina del simbolico, è la libbra di carne «che resta necessariamente presa dentro la macchina formale e senza la quale il formalismo logico non sarebbe per noi assolutamente niente»[1]. È in ciò che “zoppica”, nell’inciampo, che possiamo trovare la vera causa psichica: ciò che manda in tilt il simbolico. Non si tratta di puntare alla realtà, all’oggettività ma di far emerge la dimensione dell’oggettualità, l’oggetto che si produce dal taglio della lingua sul corpo:

«[…] il luogo mai individuato che tentiamo di circoscrivere e di definire, il luogo mai individuato sinora in tutto il, diciamo, irraggiamento ultra-soggettivo, il luogo centrale della funzione pura del desiderio – se così si possiamo dire -, questo luogo, dunque, è precisamente quello in cui vi dimostro come si forma a: a, l’oggetto degli oggetti. Il nostro vocabolario ha promosso per tale oggetto il termine di oggettualità in quanto si oppone a quello di oggettività. Per compendiare questa opposizione in alcune formule rapide, diremo che l’oggettività è l’ultimo temine del pensiero scientifico occidentale, il correlato di una ragione pura che, in fin dei conti, si traduce in – si riassume con, si articola in – un formalismo logico. […] l’oggettualità è un’altra cosa […] l’oggettualità è il correlato di un pathos di taglio»[2].

Questi passaggi aprono a una riflessione molto importante sulla clinica orientata da Lacan. La teoria degli stadi evolutivi di Abraham[3], lascia intendere che lo sviluppo pulsionale possa concludersi in una sorta di armonia. Non è questa l’opinione di Lacan che nel Seminario IV dice:

«L’idea di un oggetto armonico, che per sua natura realizzi la relazione soggetto-oggetto, è perfettamente contraddetta dall’esperienza – e non dirò nemmeno dall’esperienza analitica, ma dall’esperienza comune dei rapporti tra l’uomo e la donna»[4].

Insomma, “non c’è rapporto sessuale”, non c’è armonia possibile tra soggetto e oggetto, non c’è mai un perfetto raggiungimento dell’oggetto del desiderio.

L’idea di Abraham è che lo sviluppo libidico, attraverso una serie di stadi caratterizzati da diverse fissazioni pregenitali raggiunga poi, nella fase fallica, l’armonia della relazione genitale. La dinamica pregenitale versus quella genitale è il fondamento della teoria delle relazioni oggettuali alla base di una certa concezione di cura che ha come obiettivo la completa realizzazione della soddisfazione genitale. Ma, aggiunge Lacan,

«Se in questo registro l’armonia non fosse una cosa problematica, non ci sarebbe analisi. Non vi è niente di più preciso delle formulazioni di Freud su questo punto – in questo registro, qualcosa è beante, qualcosa non va […]»[5].

L’oggetto è allucinato a partire da una condizione di angoscia, l’oggetto:

«È questo pezzo che circola nel formalismo logico, così come si è costituito con il nostro lavoro dell’uso del significante. È questa parte di noi stessi che è presa nella macchina ed è per sempre irrecuperabile. Oggetto perduto ai livelli diversi livelli dell’esperienza corporea in cui si produce il suo taglio: è esso il supporto, il substrato autentico, di ogni funzione della causa. Questa parte corporea di noi stessi è, essenzialmente e per funzione, parziale. È il caso di ricordare che questa parte è corpo e che noi siamo oggettuali: il che vuol dire che siamo oggetti del desiderio solo in quanto corpi. È un punto essenziale da ricordare, dato che fare appello a qualcos’altro, a un qualche sostituto è uno dei campi creatori della negazione. Il desiderio resta sempre, in ultima istanza, desiderio del corpo, desiderio del corpo dell’Altro, e nient’altro che desiderio del suo corpo.»[6]

Qui emerge con chiarezza l’impossibilità di un oggetto perfettamente soddisfacente e armonioso che dovrebbe consentire un rapporto adeguato con la realtà. L’oggetto è continuamente cercato come perduto, come oggetto di un soddisfacimento primordiale e primitivo del bambino:

«Questo oggetto, che corrisponde a uno stadio avanzato della maturazione degli istinti, è un oggetto ritrovato, l’oggetto ritrovato del primo svezzamento, l’oggetto che è stato anzitutto il punto di aggancio dei primi soddisfacimenti del bambino. È chiaro che, per il solo fatto che esista tale ripetizione, si instaura una discordanza. Una nostalgia lega il soggetto all’oggetto perduto, una nostalgia tramite cui si esercita tutto lo sforzo della ricerca. Essa caratterizza il ritrovamento del segno di una ripetizione impossibile, visto che per l’appunto non è lo stesso oggetto, non potrebbe esserlo. Il primato di questa dialettica pone al centro della relazione soggetto-oggetto una tensione fondamentale, che fa sì che ciò che è ricercato non lo è allo stesso titolo di ciò che sarà trovato. È attraverso la ricerca di un soddisfacimento passato e superato che il nuovo oggetto viene cercato e che viene trovato e colto altrove rispetto al punto in cui viene cercato. C’è qui una distanza fondamentale, introdotto dall’elemento essenzialmente conflittuale che qualunque ricerca dell’oggetto comporta. È la prima forma sotto cui compare la relazione oggettuale in Freud»[7].

Nella ripetizione si instaura la discordanza. Niente più sarà in grado di ristabilire quella condizione magica, unica, di pieno soddisfacimento originario, mitico. La ricerca di un oggetto volto a colmare questa mancanza originaria renderà sempre insoddisfacente la ricerca stessa: tutti gli oggetti saranno inadeguati nessuno di questi porterà alla realizzazione di quella armonia, di quella condizione mitica di pieno godimento.

Questo rende ancora più palpabile il fatto che la conduzione della cura va al di là di un oggetto pensato come appartenente alla realtà: la cura analitica ha come riferimento i tre registri. Simbolico, immaginario e reale, e, fino a un certo punto del suo insegnamento, la cura consisteva nel ridurre la portata dell’immaginario che scherma la verità del simbolico, verità che è sempre mancante, mancanza che si vorrebbe colmata ma che non c’è possibilità di soddisfare. Quindi Lacan propone una concezione della psicoanalisi che supera l’idea di una possibile armonizzazione con l’oggetto, per il fatto che il soggetto si confronta con la “mancanza d’oggetto”, mancanza che si articola secondo i tre registri. Articolazione che sviluppa a partire dalla “triade immaginaria” madre-bambino-fallo. Tra la madre e il bambino c’è il fallo che è propriamente ciò che la madre desidera:

«La nozione di relazione oggettuale è impossibile da capire, e anche da esercitare, se non vi mettiamo il fallo come un elemento, non dico mediatore, dato che sarebbe fare un passo che non abbiamo ancora fatto insieme, ma come elemento terzo.»[8]

Il fallo oltre a indicare il desiderio materno fa luce anche sull’insoddisfazione strutturale della condizione umana, una condizione con la quale il bambino dovrà confrontarsi. La madre è inappagata, è inappagabile.

Ora, tornando alla questione della mancanza dell’oggetto che Lacan considera «molla stessa della relazione del soggetto con il mondo»[9], viene, nel Seminario IV, articolata a partire da tre concetti: castrazione, frustrazione e privazione.

La prima, «è stata introdotta da Freud in modo del tutto coordinato con la nozione di legge primordiale, con quanto vi è di legge fondamentale nell’interdizione dell’incesto e nella struttura dell’Edipo. […] La castrazione può essere classificata solo nella categoria del debito simbolico»[10].

È il debito con cui tutti dobbiamo fare i conti quando veniamo al mondo e che non può essere mai saldato: «[…] quel che manca a livello della castrazione in quanto costituita dal debito simbolico, quel qualcosa che sanziona la legge e le dà il suo supporto e il suo rovescio che è la punizione, non è un oggetto reale»[11]. È, infatti, un oggetto immaginario, quello in questione nella castrazione. È il fallo immaginario:

«È solo nella legge di Manu che si dice che colui che avrà giaciuto con la madre dovrà tagliarsi i genitali e, tenendoli in mano, andare dritto verso ovest sino a che morte non sopraggiunga. Fino a nuovo ordine abbiamo visto cose del genere solo in casi molto rari, che non hanno niente a che vedere con la nostra esperienza, e che ci sembrano meritare delle spiegazioni che restano comunque di tutt’altro ordine rispetto ai meccanismi strutturanti e normalizzanti solitamente chiamati in causa nella nostra esperienza»[12].

 Invece, nella frustrazione è la mancanza a essere immaginaria, invece l’oggetto è reale. La vera base della frustrazione non è il fatto che qualcosa che si desidera non si ha. Su questo punto Lacan è chiarissimo:

«La nozione che abbiamo della frustrazione, riferendoci semplicemente all’uso che ne viene fatto quando ne parliamo, è quella di un danno. È una lesione, un danno che, per come siamo abituati a vederlo esercitarsi se seguiamo il modo in cui lo facciamo entrare in gioco nella nostra dialettica, non è mai altro che un danno immaginario. La frustrazione è per essenza l’ambito della rivendicazione. Riguarda qualcosa che si desidera e che non si detiene, ma che si desidera senza alcun riferimento a qualche possibilità di soddisfacimento o acquisizione. La frustrazione è di per sé l’ambito delle esigenze sfrenate e senza legge. Il centro della nozione di frustrazione, in quanto categoria della mancanza, è un danno immaginario. È sul piano immaginario che essa si situa.»[13]

Quindi, il danno causato dalla frustrazione è immaginario, l’oggetto è reale, infatti: «È sempre di un oggetto reale che il bambino, soggetto preminente della nostra dialettica della frustrazione, patisce la mancanza.»[14]

L’alternarsi capriccioso, sregolato, della presenza e dell’assenza della madre le conferisce un potere simbolico assoluto: può dare o può rifiutarsi di dare, agisce cioè fuori dalla legge e ciò la rende onnipotente e all’onnipotente è possibile chiedere tutto, anche l’impossibile, cioè di raggiungere la completa soddisfazione che, non essendo raggiungibile resta strutturalmente sempre frustrata. Quindi il seno è un oggetto reale della frustrazione che appare e poi sparisce secondo i “capricci” della madre onnipotente che ha il potere di dare o di negare.

Per finire, l’oggetto che manca nella privazione è l’oggetto simbolico anche perché «[…] come potrebbe qualcosa non essere al suo posto, non stare in un posto dove per l’appunto non è? […] Tutto ciò che è reale è sempre e necessariamente al suo posto, anche quando lo si va a scomodare.»[15]

Lacan qui fa riferimento alla mancanza del fallo nel femminile: la donna privata di qualcosa che non ha. Qui, il fallo è necessariamente simbolico. Il fallo è come il libro che manca dallo scaffale della biblioteca per il fatto di trovarsi in un altro posto, cioè, per il fatto di “non” trovarsi là dove doveva trovarsi. Il fallo è quell’oggetto che manca nel posto in cui doveva essere: è un oggetto simbolico per antonomasia.

Il fallo diventa un operatore che entra in gioco come terzo elemento nella coppia madre-bambino e che apre a un prospettiva diversa da quella dell’amore primario: la madre non desidera il bambino ma il fallo e, inoltre, alla triade madre-bambino-fallo, si aggiunge poi il padre, che  rappresenta la funzione simbolica in grado di andare al di là della triade immaginaria e della frustrazione cioè, a livello della castrazione, «conferisce alla mancanza la dimensione del patto, di una legge, di un divieto che è quello dell’incesto»[16].

Ora, da un punto di vista clinico, le contingenze della vita possono indebolire la dimensione simbolica, dimensione che, nell’era post-edipica, è strutturalmente carente, cioè, la risposta che si vorrebbe “normale” ai limiti imposti dalla Legge simbolica, che dovrebbe essere supportata da una sorta di accettazione di questi limiti (castrazione), dovrebbe garantire di conseguenza la possibilità di aver accesso al “fallo” (immaginario)[17].

È importante sottolineare che, se nel Seminario IV il fallo appartiene al registro immaginario come significante della metafora paterna, nel Seminario VI diventa significante del desiderio, ovvero significante simbolico, significante della mancanza che non si incontra mai articolato però alla dimensione pulsionale. Il fallo, nel Seminario VI diventa significante intrecciato alla libido, cioè il desiderio tende a ribellarsi alla Legge del simbolico anche se ne è profondamente segnato, infatti, la spinta pulsionale passando attraverso il codice dell’Altro ne riceve un marchio nell’ideale: il significante lascia il suo segno nel corpo. Il bambino cerca un seno ma gli resta una marchiatura del significante, una identificazione primaria:

«Se questo processo sfocia in tale nucleo dell’identificazione è perché la madre non è semplicemente quella che dà il seno, ma anche quella che dà il seing, s.e.i.n.g, la firma dell’articolazione significante. Ciò non dipende soltanto dal fatto che ella parla al bambino, giacché è evidente che gli parla molto prima di poter presumere che egli intenda qualcosa, come pure che egli intende qualcosa molto prima di quanto ella immagini. In effetti, prima dello scambio propriamente linguistico, vari tipi di giochi, per esempio il gioco di occultamento che tanto prontamente scatena il sorriso, e perfino la risata, nel bambino, costituiscono già, a rigore, un’azione simbolica.»[18] Il “Che vuoi?” che Lacan riprende da Il diavolo innamorato di Cazotte[19], è il segno del desiderio dell’Altro che il soggetto declina in “Cosa vuoi da me?”. L’Altro ha un desiderio non decifrabile, criptico che lascia il soggetto in sospeso, senza punti di riferimento, impotente difronte a questo enigma.


[1] J. Lacan, Il Seminario. Libro X. L’angoscia, Torino, Einaudi, 2007, p. 233.

[2] Ivi, p. 232.

[3] K. Abraham, Tentativo di una storia evolutiva della libido sulla base della psicoanalisi dei disturbi psichici, in Opere, Torino, Boringhieri, 1975, vol. 1.

[4] J. Lacan, Il Seminario. La relazione oggettuale. 1956-1957, Torino, Einaudi, 2007, p. 20.

[5] Ibidem.

[6] J. Lacan, Il Seminario. Libro X. L’angoscia. 1962-1963, Torino, Einaudi, 2007, p. 233.

[7] J. Lacan, Il Seminario IV, op. cit., p. 9.

[8] Ivi, p. 23.

[9] Ivi, p. 31.

[10] Ivi, p. 32.

[11] Ivi, p. 33.

[12] Ibidem.

[13] J. Lacan, Il Seminario. Libro IV. La relazione d’oggetto. 1956-1957, Torino, Einaudi, 2007, p. 32.

[14] Ivi, p. 33.

[15] Ivi, p. 33.

[16] Ivi, p. 78.

[17] Che, per esempio, nel feticismo, si realizza in un oggetto feticcio che assume valore fallico. Nella fobia assume valore di soluzione alla mancanza del fallo ovvero dove l’oggetto, es. il cavallo nel caso del piccolo Hans, assume valore simbolico in risposta alla carenza simbolica, alla mancanza del fallo nella madre: evitare il cavallo mi consentirà di evitare la castrazione. Nella nevrosi ossessiva la castrazione si può evitare attraverso i pensieri ossessivi o i rituali.

[18] Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro VI. Il desiderio e la sua interpretazione. 1958-1959, Torino, Einaudi, 2016, p. 35.

[19] J. Cazotte, il diavolo innamorato, Roma, Quodlibet, 2019.