Il seminario Libro IV. La Relazione d’oggetto. (1956-57)

Il Seminario IV (1956/57) “La relazione d’oggetto” studia la fobia, attraverso l’analisi del caso del piccolo Hans e la perversione, focalizzandosi sul caso della giovane omosessuale.

Nella fobia c’è un difetto nel funzionamento del significante paterno, una carenza d’incarnazione di quest’ultimo e per sopperire tale carenza del Nome-del-padre interviene l’oggetto fobico.

C’è da notare che con il Seminario IV si ha un cambiamento nell’insegnamento di Lacan: nonostante buona parte di esso è ancora incentrato sui testi freudiani (il caso del piccolo Hans e della giovane omosessuale) lo psicoanalista francese si confronta principalmente con altri autori, suoi avversari, della Société Psychanalytique de Paris.

Lacan in questo Seminario introduce la tematica del fallo che risulta essere ancora indipendente rispetto al Nome-Del-Padre, seppur già usualmente è accostato a quest’ultimo nelle varie costruzioni teoriche. Successivamente invece sarà assorbito nel funzionamento della metafora paterna. L’originalità della lettura che emerge nel IV Seminario risiede proprio nell’ipotesi dell’origine del fallo: Lacan sostiene che è la mancanza del pene nella madre a rivelare l’essenza del fallo. Il fallo è considerato come elemento immaginario e allo stesso tempo è proprio ciò che manca all’immagine del corpo. Il fallo si installa proprio nella mancanza ed è propria questa condizione a consentire che successivamente acquisisca un notevole valore simbolico, esso si colloca come terzo elemento nella coppia madre-bambino, assumendo una funzione simbolica molto importante nella pratica clinica. Il soggetto a fronte di questa mancanza fondamentale del fallo potrà percorrere due soluzioni possibili: quella fobica e cioè la difesa, o quella feticistica, propria del velo. Il feticcio infatti, per Lacan, è un’immagine proiettata su un velo che cela la mancanza del fallo.

Nel Seminario IV Lacan pone l’accento sulla differenza tra il fallo simbolico, significante puro e il fallo immaginario, indice della mancanza materna e sostituto immaginario di questa mancanza proprio perché il desiderio della madre spinge ad identificare il bambino al fallo, sostituendolo ad esso immaginariamente.

Lacan, seguendo la lezione freudiana, pone l’accento sul legame tra l’Edipo e il complesso di castrazione, seppur Freud non esplicita mai tale connessione. Da qui Lacan ci propone la tesi della relazione d’oggetto basata sulla castrazione. L’oggetto, la a dell’asse immaginario, simmetrica ad a’ (l’io), oggetto immaginario, impigliato nella relazione narcisistica, ora, pur rimanendo ancora tale, si lega al simbolico del quale diventa fondamento: il corollario è che l’oggetto stesso abbia come base la castrazione. Tale ipotesi, (la castrazione come fondamento della relazione d’oggetto) segna una rottura con le teorie sulla relazione oggettuale che prendevano piede in quegli anni.

È necessario distinguere il pene, in quanto organo reale caratterizzato da quelle funzioni individuabili in determinate coordinate reali (fa questo, serve a quello, è fatto così e così…), dal fallo immaginario[1]. In quest’ultimo caso il fallo è quel’oggetto immaginario di cui la madre manca: l’oggetto immaginario che ella desidera, l’oggetto del suo desiderio. Allo stesso tempo, nella sua funzione simbolica, il fallo è “un significante”[2], connesso alla sua funzione paterna.

La diade madre-bambino, è il prototipo fondamentale di tutte le relazioni immaginarie, e “questo rapporto è indubbiamente atto a dare l’idea che si tratti di una relazione reale”[3]. Tale relazione è definita immaginaria perché tra la madre e il bambino si instaura un rapporto speculare, carico di elementi affettivi, e che può acquisire una valenza positiva o negativa, ma, priva di dialettica e cioè non in grado di far circolare quel desiderio che vuole andare al di là del rapporto di reciprocità speculare. Affinché ci sia circolazione del desiderio è necessario introdurre un terzo termine.

Freud individuò questo termine nel padre, invece Lacan lo identificherà nel fallo che è operante fin dalla nascita. Per questo Lacan critica gli autori che riducono l’esperienza analitica allo sviluppo rielaborato delle relazioni immaginarie, e pertanto duali, tra madre e bambino. La coppia madre-bambino si trasforma in una triade con l’aggiunta del fallo. “Freud ci dice che nel novero delle mancanze di oggetto essenziali, la donna ha quella del fallo e che questo ha uno strettissimo rapporto con la sua relazione con il bambino. Per una semplice ragione: se la donna trova nel bambino un soddisfacimento è precisamente nella misura in cui trova in lui qualcosa che calma in lei, più o meno bene, il bisogno del fallo, che lo satura.[4]Tale saturazione sarà incompleta, sia per la madre che per il bambino. La madre resterà sempre mancante e inappagata. Il bambino si candiderà “egli stesso come l’oggetto che…colma”[5] la madre anche in questo caso fortunatamente tenderà a spostarsi da quella posizione. Schematizzando: abbiamo il bambino che identificandosi con l’oggetto immaginario mancante alla madre, il fallo, tenta di curare la madre colmandole quella mancanza e offrendosi di alleviare il suo desiderio strutturalmente insoddisfatto.

A proposito del terzo termine Lacan scriverà “Il padre simbolico non è da nessuna parte. Non interviene da nessuna parte. La privazione la troviamo nell’opera stessa di Freud”[6]. In particolare in Totem e tabù, che è “nient’altro che un mito moderno, un mito per esplicitare ciò che rimaneva aperto nella sua dottrina, ossia – Dove è il padre? Basta leggere Totem e tabù […] per accorgersi che, se non fosse come vi dico, vale a dire un mito, sarebbe assolutamente assurdo. Totem e tabù è fatto per dirci che, perché sussistano dei padri, bisogna che il vero padre, l’unico padre, il padre unico, sia prima della storia, e che sia il padre morto. Ancora di più – che sia il padre ucciso[7]. La funziona paterna (simbolica), per Lacan, si ritrova nel padre freudiano che produce i suoi effetti proprio perché morto, perché è assente, proprio perché è solo simbolo. Il padre morto è un significante che funziona anche quando è assente nella realtà: equivale al significante del Nome-del-Padre. La funzione paterna incarnata nel padre simbolico partecipa alla dialettica edipica “tramite il padre reale, il quale giunge in un momento qualsiasi a ricoprire il ruolo e la funzione, permettendo di vivificare la relazione immaginaria fornendogli la sua nuova dimensione”[8]. “Il padre simbolico è una necessità della costruzione simbolico che non possiamo situare se non in un al di là, direi quasi una trascendenza, comunque come un termine che, ve l’ho indicato per inciso, non è raggiunto se non tramite una costruzione mitica”[9]. Il padre simbolico è riconducibile al puro significante, ma abbiamo anche il padre immaginario e il padre reale. Infatti Lacan sottolinea che “Abbiamo sempre a che fare con il padre immaginario. È a lui che più comunemente fa riferimento tutta la dialettica, quella dell’aggressività, quella dell’identificazione, quella dell’idealizzazione tramite cui il soggetto accede all’identificazione con il padre. Tutto ciò avviene a livello del padre immaginario. Lo chiamiamo immaginario anche perché è integrato alla relazione immaginaria che forma il supporto psicologico delle relazioni con il simile […]. È il padre spaventoso che conosciamo alla base di tante esperienze nevrotiche e che non ha assolutamente, in maniera necessaria, nessuna relazione con il padre reale del bambino[10]. Quest’ultimo è l’agente della castrazione che consente al bambino di entrare nella dimensione del desiderio, il padre reale per il bambino detiene il pene e possiede la madre. Lacan sottolinea che per il bambino è molto difficile percepire il padre nella sua realtà: “facciamo una grande fatica ad apprendere quanto vi è di più reale intorno a noi, vale a dire gli esseri umani così come sono”[11]. Ciò accade a causa dell’incidenza dell’immaginario della funzione paterna. La funzione paterna si realizza nel padre reale: “È al padre reale che viene effettivamente rimessa la funzione emergente nel complesso di castrazione”[12]. È pertanto il padre reale l’operatore strutturale della castrazione, che consenta al bambino di entrare nel circuito del desiderio strappandolo dal godimento rappresentato dalla madre. Inoltre il padre reale garantisce anche la sopravvivenza di quella parte della femminilità per la donna che va al di là del fatto di essere madre.

Nella psicosi a essere mancante è il significante paterno, mentre nella perversione o nella nevrosi è il padre della realtà che non svolge bene la sua funzione e il suo ruolo. L’esempio per antonomasia è la fobia nel piccolo Hans. Quest’ultimo si confronta con una figura paterna che non si mostra pienamente capace di imporsi sul desiderio della madre. Hans incontra un padre troppo affabile, troppo sottomesso, incapace di assurgere a quella funzione di padre che consentirebbe al figlio di accedere alla castrazione, e cioè a quella sottrazione di godimento indotto dal possesso della madre, privazione che consentirebbe l’accesso al desiderio. Hans saprà dar vita al padre idealizzato proprio attraverso il dott. Freud, che assumerà, per usare un espressione successiva di Lacan, il soggetto-supposto-sapere. Il piccolo Hans invoca la presenza di un papà che sia all’altezza del suo compito di padre: “ Ma fai dunque il tuo mestiere di padre!”[13]. Ma non riuscendolo a trovare nel padre il piccolo Hans si costruirà “una supplenza a questo padre che si ostina a non volerlo castrare”[14]: l’oggetto fobico che prende forma nel cavallo, che funzionerà da significante paterno supplente di un padre carente. Nella sua analisi Lacan va al di là del padre e al di là del cavallo, individuando nella vecchia nonna la funzione del Nome-del-Padre, sostituto del padre carente. Ma anche la nonna sarà incapace di sganciare Hans dall’identificazione immaginaria con la madre. Ciò causerà nel piccolo Hans: “un’atipia”[15] nel suo complesso edipico e nel suo rapporto con la paternità che sarà giocata principalmente sul versante immaginario. “Pure nel caso di Gide vediamo che il padre è presente, ma è un padre buono per i giochi mentre è la madre a sostenere gli imperativi della legge e l’autorità simbolica. Certo, le conseguenze non sono identiche: Hans amerà le donne, André Gide i ragazzi. Tuttavia Lacan non fonda la differenza tra i due a partire dal sesso dell’oggetto scelto. Al contrario, l’eterosessualità del piccolo Hans non impedisce che egli si trivi fondamentalmente in una posizione femminile, a tal punto che Lacan lo designa come la figlia di due madri. Per quanto riguarda Gide, Lacan dimostra che può godersi il proprio pene come una donna traboccante di godimento.”[16]

Altro tema introdotto in questo Seminario è quello connesso alla dialettica amore-desiderio. La madre è simbolica in quanto connessa alla dinamica assenza/presenza propria del Fort-Da e in quanto essa ha in sé gli oggetti reali, proprio come se fosse un contenitore simbolico. Questo scenario adesso di capovolge in quanto la madre (assente/presente, Fort-Da) non rispondendo più con regolarità, si trasforma in reale, che appunto è refrattario al simbolico e l’oggetto, invece, da reale diventa simbolico. Quindi, schematicamente, la madre da simbolica diventa reale e l’oggetto, invece, da reale diventa simbolico. Quando Lacan parla di oggetto simbolico intende sottolineare che il valore dell’oggetto dipende dal fatto di essere un dono della madre e non dal fatto di avere queste o quest’altre qualità. La madre, in quanto reale, ha il potere di concederlo oppure no. L’oggetto ha valore di dono perché segno d’amore della madre, e in quanto tale rappresenta l’archetipo dell’Altro per il bambino. È importante distinguere l’oggetto del bisogno da quello simbolico: è quest’ultimo che produce la domanda d’amore. La domanda dell’oggetto di bisogno ha come obiettivo l’ottenimento dell’oggetto richiesto, in questo caso avremo l’Altro che ha, in grado di soddisfare il bisogno, la domanda dell’oggetto simbolico invece si rivolge alla dinamica presenza-assenza dell’Altro e cioè alla presenza simbolica dell’Altro anche quando assente, in questo caso è l’Altro che non ha e che può dare solo il segno del proprio amore, proprio per questo Lacan dirà che “amare è far dono di quello che non si ha”.

Come il fallo anche il bisogno subirà la stessa operazione di significantizzazione. In questo caso la domanda non si riferirà all’oggetto del bisogno, del quale sarebbe in possesso la madre e che viene richiesto dal bambino. Lacan chiama la madre simbolica perché risponde, come la madre del bambino che gioca con il rocchetto, al Fort-Da del bambino con la sua presenza e con la sua assenza. La domanda per Lacan è sempre domanda di un dono: al di là dell’oggetto è l’amore che il bambino domanda alla madre, che è, per il bambino un’onnipotenza[17]. L’oggetto del bisogno, nella dimensione simbolica, mi ripeto, avrà sempre valore di segno dell’amore della madre, ecco perché ogni domanda è domanda di amore. In questo contesto “il desiderio non è né l’appetito della soddisfazione né la domanda d’amore, ma la differenza che risulta dalla sottrazione del primo dalla seconda, il fenomeno stesso della loro scissione (Spaltung)[18].

[1] Cfr. Jacques Lacan, Libro IV, La relazione d’oggetto, 1956-57, Traduzione di Roberto Cavasola e Céline Menghi sotto la direzione di Antonio Di Ciaccia, Torino, Einaudi, 1996, p. 27.

[2] Jacques Lacan, Scritti, La significazione del fallo, op. cit. p. 687

[3] Jacques Lacan, Libro IV, La relazione d’oggetto, op. cit., p. 25.

[4] Op. cit., p. 71

[5] Op. cit, p.191

[6] Jacques Lacan, Libro IV, La relazione d’oggetto, op. cit., p. 228

[7] Ibidem

[8] Ibidem

[9] Jacques Lacan, Ibro IV, La relazione d’oggettoI, op. cit., 238

[10] Ibidem

[11] Op. cit., p. 239

[12] Ibidem

[13] Op. cit., p. 418

[14] Op. Cit., p. 398

[15] Op. Cit., 421

[16] J.-A. Miller, Presentazione del Seminario IV di J. Lacan, in “La Psicoanalisi”, n. 15, 1994, p.32

[17] Op. Cit., p. 70

[18] Jacques Lacan, Scritti, op. cit., p. 668