Rappresentazioni e strutture ambientali complesse: gestalt, teoria del campo e modello psicodinamico di campo

Premessa

Al lettore sembrerà, in questo capitolo, di allontanarsi dalle tematiche più proprie alla prospettiva clinica di stampo psicoanalitico. Ho fatto questa scelta perché ho trovato molte assonanze tra il concetto di “campo”, prima nella Gestalt e poi in Lewin, e quello di modello psicodinamico di “campo”, ai fini dello studio dell’ambiente di vita e delle modalità di rappresentazione dell’altro istituzionale per la cura delle psicosi. Concetti come quello di “clinica del quotidiano”, “ambiente relazionale”, “contesto ambientale”, “clinique à plusieurs”, “dimensione gruppale”, “atto parlante”, “residenza emotiva”, “sito analitico allargato”, “spazio umanizzato”, “funzione ecologica del gruppo” (ecc.) mostrano delle pertinenze con il percorso di studi sul concetto di campo, soprattutto in riferimento al modello psicodinamico, forse ancora non del tutto esplorato. Non ho voluto però trascurare gli autori che, in un certo qual modo, hanno dato inizio a tali studi e cioè quei studiosi che hanno gettato le basi della Gestalttheorie e della “dinamica dei gruppi” (Lewin), ma sono andato oltre, appunto verso un modello psicoanalitico dei campo: dove lo spostamento di un componente di questo non è rappresentato più come una linea, ma come un’onda materiale originata dalla frequenza di vibrazione e dalla lunghezza d’onda. Quando parliamo di “campo analitico” ci riferiamo al “campo emozionale”, non lineare e che rispetto al modello relazionale tout court, mette in evidenza l’elemento terzo, situato tra il “curante” ed il “curato”: quel contenitore comune emozionale che ha la proprietà di organizzarsi indipendentemente dalla consapevolezza e dall’intenzionalità dei partecipanti.

La situazione analitica, nel lavoro istituzionale richiede un’ampiezza e una profondità maggiore di quelle che possiamo rintracciare nel modello trattato dalla concezione lineare dello spazio. Un paziente che mostra trasformazioni proiettive adopera anche un campo che non è riconducibile semplicemente all’operatore o alla propria personalità o anche al rapporto tra lui e l’operatore ma tutte queste cose e altre ancora: la situazione analitica dunque si mostra nel suo complesso come un sistema di energia (come già Freud  diceva nel suo Progetto di psicologia scientifica e Corrao nel suo modello di campo) in cui la somma totale di energia rimane la stessa e la destabilizzazione di una qualunque parte del sistema può essere individuata negli aumenti di “pressione”. Una complessità, appunto, che non sempre riesce a mostrarsi nelle rappresentazioni topologica (cerchio, linee, punti, sfere) tipica della tradizione lewiniana; il “campo” della trasformazione, o ricettore o terreno o contesto o situazione si avvicina per analogia, in questa nuova concezione, ad un dipinto, in cui il “terreno-ambiente” per la trasformazione è la “tela su cui la trasformazione è proiettata”.

Ambiente comportamentale vs ambiente geografico

Kanizsa sottolineò, forse per primo così esplicitamente che, la Gestalttheorie fu quel sistema dottrinale, che più degli altri fu soggetto ad errori interpretativi;  l’immagine più diffusa che si ha di essa è proprio quella che rimanda ad una serie di luoghi comuni deformanti, definizioni stereotipate che si possono leggere correntemente nelle discussioni più o meno scientifiche, e che si tramandano da un trattato generale ad un altro e che, a forza di essere ripetute, sembrano rappresentare la genuina teoria, senza che nessuno si preoccupi di andare a controllare cosa veramente hanno detto i proponenti della teoria stessa. Kanizsa individua i dieci principali fraintendimenti, e cioè l’idea che la Gestalttheorie sia una teoria: della percezione, riduzionista, innatista, che rifiuta l’analisi, vitalista, che nega l’azione dei fattori motivazionali della percezione, che nega l’azione dell’esperienza passata, per cui la regolarità equivale a simmetria, per cui i problemi si risolvono mediante l’insight (Kanizsa, G., 1978). La peggiore delle interpretazioni alberga nel famoso slogan: “l’intero è più della somma delle sue parti”. La fortuna (meglio sarebbe sfortuna) di questa frase si spiega per il fatto stesso di suonare allettante, simile ad un’offerta pubblicitaria che può andare bene per tutte le salse. Il risvolto negativo è che in questo modo si banalizza, un concetto, tutt’altro che banale. Wertheimer dice che “la formula fondamentale della teoria della gestalt potrebbe venire espressa in questo modo: ci sono degli interi (wholes) il cui comportamento non è determinato da quello dei loro elementi individuali, ma dove le parti-processi (part-processes) sono esse stesse determinate dall’intrinseca natura dell’intero (Wertheimer, M., l925). E’ appunto l’aspirazione della teoria della gestalt quella di determinare la natura di questi interi. Detto altrimenti, “le proprietà del tutto non sono il risultato di una somma delle proprietà delle sue parti”, ma  la proprietà di una parte dipende dal tutto nel quale è inserita (Kanizsa, G., 1978). Questa precisazione è fondamentale perché restituisce alla gestalt valenza scientifica (quella tipica della psicologia ecologica) secondo la quale “dobbiamo rinunciare a trattare i fatti separatamente e considerare invece gruppi di fatti nelle forme particolari delle loro connessioni” (Koffka, K., 1935).

Un altro fraintendimento, anche questo particolarmente radicato nell’idea comune della Gestalttheorie, si origina dalla concezione di una psicologia della gestalt impegnata principalmente (per alcuni esclusivamente) nello studio dei processi di percezione. Naturalmente qui non si viene affermando che il contributo dei gestaltisti allo studio dei fenomeni percettivi sia stato secondario, ma basterebbe sfogliare (per studiarle forse non basterebbe il tempo di una laurea!) le belle pagine di Principi di Psicologia della forma (Koffka, K., 1935) per rendersi conto che solo quattro sono i capitoli dedicati all’organizzazione visiva mentre invece i restanti undici sviluppano temi più generali assenti nelle sintesi dei manuali di psicologia generale. Wertheimer scriveva: “Che cos’è la psicologia della gestalt ed in che cosa consiste? La teoria della gestalt è stata il prodotto di investigazioni concrete nel campo della psicologia, della logica e dell’epistemologia”, molto di più della mera descrizione di alcuni principi di organizzazione visiva (Wertheimer, M., 1925).

Quindi la “grammatica del vedere” (Kanizsa, G., 1980), pur focalizzandosi sul tema della percezione, rilegge le conclusioni delle varie ricerche in questo ambito per indagare i problemi più generali della psicologia. Fondamentale, per la ricerca psicologica, è la distinzione tra il concetto di ambiente comportamentale,ambiente geografico e campo psicofisico messa in risalto da Koffka (Koffka, K., 1935). Questo autore sosteneva che la realtà fisica non è un dato, ma qualcosa di costruito: le “cose” si collocano nel mondo e per quanto riguarda le rappresentazioni, non possiamo confidare nell’esistenza di una coordinazione punto a punto tra il mondo oggettivo ed il mondo fenomenico (Koffka, K., 1924), distinguiamo dunque tra un ambiente geografico e un ambiente comportamentale. Viviamo tutti nella stessa città? Sì, se intendiamo “nella” in senso geografico, no, se intendiamo “nella” in senso comportamentale (Ibidem). Il mondo fisico esiste per l’organismo sotto forma di ambiente (surroundings) suo proprio – cui possiamo riferirci come al suo mondo fenomenico, benché, naturalmente, per l’organismo tale ambiente risulti come un ambiente perfettamente reale (Ibidem). Se è vero che il comportamento ha luogo in un ambiente comportamentale da cui è regolato, è anche vero che il comportamento avviene in un ambiente geografico, di conseguenza l’ambiente comportamentale dipende da quello geografico (Koffka, K., 1935): ma vanno considerati comportamento solo quei movimenti dell’organismo che avvengono in un ambiente comportamentale. I movimenti che avvengono solo in un ambiente geografico non sono comportamento (Ibidem).

Da queste considerazioni emerge a nostro avviso la necessità di studiare la coscienza che si ha dell’ambiente. Le cose non “appaiono come appaiono perchè sono quelle che sono” dice Koffka (Koffka, K., 1935): le ragioni della propria apparenza sono da ritrovare nell’organizzazione del campo. Se le cose apparissero quali appaiono perchè sono quelle che sono, non esisterebbe il problema cognitivo della percezione nel suo costituirsi. La percezione porterebbe alla conoscenza dell’ambiente geografico (Ibidem), invece, nonostante il fatto che la percezione, in una certa misura riproduce alcune proprietà degli oggetti reali, gli oggetti percepiti sono ben lontani dall’essere repliche perfette.

È necessario riconoscere che l’ambiente, anche il proprio, è un ambiente comportamentale (conscio) e non geografico (fisico) ed è compito della psicologia sottolineare la distinzione tra ambiente geografico ed ambiente comportamentale, ed è sempre compito della psicologia collocare tale coscienza (ambientale) al centro della propria indagine.

Soggettività ambientale

La “soggettività ambientale” si articola attraverso il “carattere “fisionomico” delle rappresentazioni dell’habitat” (Perussia, F., 1986). Per descrivere in modo adeguato l’ambiente comportamentale è necessario indicare non solo gli oggetti in esso compresi, ma anche le loro proprietà dinamiche (Koffka, K., 1935). La descrizione degli oggetti collocati all’interno del nostro ambiente comportamentale sarebbe incompleta e inadeguata se non tenessimo in considerazione il fatto che alcuni di essi sono attraenti, altri repulsivi ed altri ancora indifferenti, intendendo i termini attraente e repulsivo nell’accezione più ampia (Ibidem).

Kohler sosteneva che nella vita di tutti i giorni noi siano realisti ingenui, facciamo fatica a convincerci che le cose intorno a noi siano delle vere e proprie costruzioni, date nella percezione, di cose fisiche. Ecco perché tutte le proprietà che le cose e le persone hanno in funzione dell’organizzazione percettiva, usualmente vengono considerate come caratteristiche che queste cose e persone hanno in se stesse (Kohler, W., 1947).

Nonostante il fatto che i dati di coscienza siano verosimilmente prodotti dai processi biologici intrinseci al nostro corpo, tendiamo spontaneamente ad attribuirli (causa la struttura stessa del campo psicofisico) ad una realtà che si localizza come esterna a noi. Tale disgiunzione, soggettiva, fra dimensione dei processi fisici che generano l’esperienza e punti di riferimento dell’esperienza, la troviamo ben articolata in Ash: “il nostro campo contiene una quantità di oggetti e di caratteristiche che ad essi appartengono ben chiaramente, e che noi non confondiamo con le nostre caratteristiche” (Ash, S.E., 1952). Fermo restando tutte le esperienze che, senza dubbio sono mie, sono consapevole del fatto che solo una piccola porzione di esse si riferisce a me. Ne consegue una segmentazione dei fatti ambientali che, non riguarda esclusivamente le loro caratteristiche “fisiche” ma anche le loro qualità: le due componenti, quella spaziale e quella affettiva, sono inscindibilmente connesse.

Kohler evidenziava che sono ben pochi i soggetti in grado di udire il rombante “crescendo” di un tuono lontano come un fatto sensoriale neutro; alla maggior parte di noi esso suonerà “minaccioso”. Le diverse condizioni meteorologiche risulteranno, similarmente intrise di caratteristiche psicologiche. Così come parliamo di giorni “tranquilli” e “agitati”, “tetri” e “lieti” o “belli”, aggettivi di questo tipo li attribuiamo a paesaggi naturali, a vedute di città e di paesaggi (Kohler, W., 1947). Allo stesso modo anche Ash  pone l’accento sulla presenza ricorrente di qualità espressive nell’ambiente: il cielo, le montagne ed il mare, la terra stessa esprimono gioia, potenza e minaccia. Queste qualità danno un carattere di drammatica realtà alla nostra esperienza ambientale e determinano il nostro modo di affrontare le cose. E’ da questo sistema dinamico-fisiognomico che emergerà uno dei postulati più importante dell’ecopsicologia, e cioè quello secondo cui “noi ci vediamo come radicati nell’ambiente circostante” (Ash, S.E., 1952).

Vale la pena ricordare lo studioso di percezione Ittelson che in un lavoro di inquadramento teorico dell’ecopsicologia (Ittelson, W. H., 1973) sostenne l’ipotesi che gli ambienti hanno sempre un’atmosfera, difficile da afferrare concettualmente. Gli ambienti sono quasi senza eccezione vissuti come parte di una attività sociale. Possiedono sempre una qualità estetica ben determinata: ambienti neutri esteticamente sono impossibili. Infine, gli ambienti hanno sempre una qualità sistemica: le varie componenti e gli eventi si pongono in relazione reciproca. In conclusione: l’uomo non è mai completamente sciolto dalla situazione in cui agisce, né l’ambiente è indipendente dall’individuo. Non ha senso parlare di essi come esistenti al di fuori della situazione in cui vengono incontrati, tutte le parti della situazione entrano in gioco come partecipanti attive. Ittelson rilegge il concetto di spazio di vita, di struttura organizzata e fisiognomica del campo percettivo, ma senza alcun accenno ai gestaltisti, anche se praticamente arriva alle stesse conclusioni.

Teoria del campo, struttura e dinamica

Lewin è tenuto in gran conto da Levy-Leboyer che nel suo famoso manuale sulla psicologia dell’ambiente ci spiega anche i motivi di tale apprezzamento: Lewin è stato il primo psicologo che ha proposto un insieme teorico coerente, corrispondente alle esigenze della psicologia dell’ambiente. Egli integrò nel proprio schema teorico sia i valori che i bisogni di ogni individuo sia le sue caratteristiche cognitive e affettive (Levy-Leboyer, C., 1982).

Fondamentale per la psicologia ecologica è la teoria lewiniana del campo. Lewin dichiarò esplicitamente di voler sviluppare un sistema di riferimento utile tanto in situazioni sociali quanto in situazioni quasi-fisiche (Lewin, K., 1938). Il suo modello topologico (Lewin, K., 1936), si fonda sulla concezione dello spazio di vita inteso come campo orientato da una struttura cognitiva dinamica, vincolata in qualche modo al gioco dei bisogni, delle ragioni, valenze, forze, tensioni e locomozioni, preciseremo più avanti questi assunti teorici.

Lewin si concentra sullo studio del comportamento fondando le sue ricerche sulle interrelazioni, che costantemente sussistono, tra persona e ambiente, che possono essere descritte mediante delle metafore di tipo spaziale che segnano l’introduzione della topologia nello studio del comportamento umano. Naturalmente l’autore stesso sconsiglia la prematura matematizzazione di questi fenomeni rivolta alla mera quantificazione e traduzione in numeri, preferendo a questa l’uso di modelli spaziali non metrici, come quelli della geometria topologica che permettono di studiare la caratteristica principale della vita psicologica di un soggetto: il suo relazionarsi con uno specifico ambiente. Gli oggetti (situazioni, persone, cose materiali) non essendo neutri sono caratterizzati da una proprietà chiamata valenza. Le valenze possono avere un valore negativo o positivo e rappresentano delle forze psicologiche che indirizzano il nostro comportamento sospingendoci verso determinate direzioni piuttosto che altre: avvicinarsi/protendere verso oggetti con valenza positiva e allontanarsi/evitare quelli con valenza negativa.

La relazione uomo-ambiente non implica che l’individuo non abbia dei confini tra sé e l’Altro. L’individuo rappresenta un sistema relativamente chiuso anche se sempre dinamicamente correlato con l’ambiente esterno e la forza con cui l’ambiente incide sulla persona è strettamente dipendente dalla stabilità funzionale delle frontiere che separano l’individuo dall’ambiente. Per meglio comprendere la natura di questa connessione bisogna interrogarsi anche sulla struttura della persona e sullo sviluppo di questa ultima.

La struttura interna della persona è differenziata in regioni, ovvero articolata in sfere di vita ognuna delle quali caratterizzata da diversi bisogni: gli affetti famigliari, le ambizioni professionali, le aspettative nei confronti degli amici, e così via. Le regioni sono suddivise da frontiere che rendono possibile l’organizzazione psicologica, funzionalmente coordinata in relazione alla complessità dell’esistenza, senza la quale si rischierebbe che, i diversi sistemi di bisogni e le condotte ad essi collegate, si sposterebbero da un ambito di vita all’altro, “scollegandosi” pertanto dalle regole sancite dal contesto.

Nel momento in cui ci mettiamo all’opera in una qualunque attività, ovviamente è indispensabile occupare una certa “quantità” di energia psichica, facendo sì che non tutta la nostra persona ne sia coinvolta: sarà impegnata esclusivamente la regione connessa con l’attività pertinente con quel contesto operativo. E’ possibile così ottenere il coordinamento delle varie attività che pratichiamo in modo complesso e variegato.

La struttura psichica, oltre che essere articolata nelle interrelazioni delle varie regioni, si presenta organizzata in piani reali ed irreali lungo la dimensione temporale del passato-presente-futuro. Ci è possibile infatti osservare un oggetto presente nel nostro campo visivo, in sua assenza di immaginarlo, così come possiamo ricordarci di averlo visto in passato o sperare di vederlo nel futuro.

Seguendo questa prospettiva, il bambino all’inizio avrebbe una struttura meno complessa di quella dell’adulto, per numero di regioni e solidità delle frontiere che le delimitano, nonché per la distinzione della realtà dall’irrealtà, e per finire, in riferimento alla prospettiva temporale, verso il passato e verso il futuro. Lo sviluppo può quindi essere visto come un progresso lungo tre linee interconnesse: regioni e solidità delle frontiere, distinzione realtà/irrealtà, passato/futuro.

La prima linea inerente alla differenziazione della persona, incrementa e “complessizza” le modalità con cui si vede la realtà e ci si rapporta: per esempio, se si fallisce un obiettivo, si può soddisfare quel bisogno con altre tipologie di azioni sostitutive.

La seconda linea, fa sì che si comprenda la natura dell’inganno e della bugia, guidando l’individuo verso superamento delle paure irrazionali e consentendo al contempo di ovviare a certe forme di gioco fantastico, sostituendole con attività e richieste più pertinenti con la realtà circostante.

La terza ed ultima linea evolutiva, garantendo una direzione prospettica della linea temporale, rende tollerabili le protrazioni dell’appagamento dei bisogni rendendo programmabile la propria vita in funzione degli obiettivi spalmati su periodi via via sempre più lunghi e contemporaneamente, l’estensione retrospettiva facilita l’integrazione e la rielaborazione dell’esperienza passata in funzione della propria personalità attuale. Il campo psicologico che esiste ad un momento dato contiene anche punti di vista da cui l’individuo guarda al suo futuro e al suo passato. L’individuo vede non soltanto la sua situazione presente ma ha anche delle aspettative, dei desideri, timori, sogni per il suo futuro. È importante però capire che il passato e il futuro “psicologico” sono parti simultanee del campo psicologico esistente ad un dato momento. Quindi, riassumendo e schematizzando: il campo è il “mondo psicologico” dell’individuo, consistente in tutti quei fattori interrelati che influenzano l’accadere di un dato comportamento. Il campo è un sistema dinamico, ovvero un sistema dotato di energia, in cui le forze presenti sono caratterizzate da direzioni e ampiezze diverse. Questa prospettiva consente lo studio integrato dei fattori cognitivi, emotivi e ambientali nella produzione di un comportamento mediante un’analisi del loro concreto modo di funzionare come sistema di fattori che si strutturano proprio nel loro essere interdipendenti. Le leggi di un campo non sono vincolate alle singole proprietà degli elementi che lo compongono, ma dalla configurazione e dal movimento interno del campo considerato globalmente. Il campo psicologico è suddiviso in regioni separate da frontiere di diversa consistenza e variabile stabilità, infatti le regioni non sono partizioni statiche ma variano con il variare del campo. Possono variare di estensione, consistenza, posizione, strutturazione interna, ecc. . Lo spazio di vita (Life-space, Lsp) consiste nella relazione che sussiste tra persona (P) e ambiente psicologico (A) così come viene visto da essa: Lsp = f (P,A). Il comportamento dipende dallo spazio di vita che è funzione sia di elementi personali che ambientali: C = f (P, A),  e quindi possiamo dire che C= f (Lsp). Infine abbiamo fatti che si collocano nella zona di confine, posti tra lo spazio di vita e il non-spazio di vita, in un processo continuo di interscambio mediante i processi percettivi e fatti che non entrano nel campo psicologico, in quanto non hanno effetti diretti sull’individuo. La teoria di campo ha come obbiettivo quindi quello di spiegare il comportamento in relazione alla situazione in cui il comportamento stesso si realizza. E’ necessario perciò definire le caratteristiche della situazione in un momento dato, definendo questa come “campo psicologico” o spazio vitale di cui fanno parte tutti gli eventi che incidono su una determinata persona, siano essi passati, presenti o futuri. Il campo è definito come totalità dei fatti coesistenti nella loro interdipendenza. La teoria lewiniana contempla tre tipologie di fatti.  Spazio di vita, costituito dalla persona e dalla rappresentazione psicologica che ha dell’ambiente (dimensione soggettiva). Fatti sociali e/o ambientali, processi e fatti che accadono nel mondo fisico e sociale ma senza influenzare momentaneamente lo spazio di vita (dimensione oggettiva). E per finire, abbiamo la zona di frontiera situata tra lo spazio di vita ed il mondo esterno (confine tra oggettivo e soggettivo). I tre ordini di fatti presenti nel campo psicologico sono interdipendenti tra loro. Il comportamento è un prodotto dell’interazione tra persona e ambiente C = f (P, A), ma il comportamento partecipa attivamente alla loro costruzione. Ora, un aspetto importante di questa teoria è che lo spazio vitale può presentare gradi molteplici di differenziazione, tenendo presente la quantità e qualità delle esperienze che l’individuo è venuto accumulando. Per articolare tale differenziazione, Lewin definisce il campo come suddiviso in regioni, separate da frontiere di consistenza e stabilità diversa. Le regioni non sono divisioni statiche ma variano con il variare del campo. Possono variare in estensione, consistenza, posizione, strutturazione interna, ecc. . Le regioni, naturalmente, non riguardano dimensioni spaziali concrete ma rappresentazioni di situazioni psicologiche. Sappiamo che secondo Lewin è possibile spostarsi da una regione all’altra. Tale locomozione, si concretizza negli spostamenti che la persona può compiere attraverso il campo (es. avvicinamento/allontanamento dalla meta). In questo caso fondamentale è il concetto di valenza e cioè il valore che una regione acquista in un dato momento per la persona che determina la direzione della locomozione verso quella regione, se naturalmente la valenza è positiva o di fuga da essa, se la valenza è negativa. La forza costituisce il prodotto del sistema di forze che agiscono in quel momento nella regione del campo da cui inizia la locomozione. È rappresentata con un vettore che ne indica la direzione, l’intensità e il punto di applicazione. Infine abbiamo il bisogno, e cioè quella tendenza motivata che rappresenta l’elemento dinamico della coordinazione che in qualche modo lega valenza, forza, tensioni, regioni e locomozione. Un bisogno può aumentare la tensione, liberare energie già presenti ma non ancora attive e conferire valenze all’ambiente dando significato e direzione alle forze. (Lewin, K.  1935, 1936, 1938; Bombi, A. E. B. & Anna, S., 2001; Di Blasio, L. & Campioni, P., 2002; Mecacci, R., 2003).

Riflessioni su un possibile modello psicodinamico di campo

Quando oggi ragioniamo sul modello psicodinamico di campo, ci riferiamo ad un complesso sistema concettuale molto lontano da quello introdotto originariamente in ambito psicoanalitico dai coniugi Baranger, che per primi si occuparono di questo possibile, tuttavia ancora immaturo, ambito di ricerca. La loro ipotesi di base era che la coppia paziente-operatore genera un campo descritto in tre livelli di strutturazione: il setting, la relazione manifesta e le fantasie inconscie bipersonali paziente-operatore, consistenti fondamentalmente in un gioco incrociato di identificazioni proiettive che rappresentano la struttura latente del campo, e la loro analisi costituisce lo specifico dell’esperienza di cura (Baranger, W. & Baranger, M., 1961). I Baranger, bypassando i debiti teorici con Bion (il loro concetto di fantasia inconscia della coppia appare in stretta risonanza con il concetto bioniano d’identificazione proiettiva) sostenevano fondamentalmente che il coinvolgimento emozionale reciproco e il vicendevole scambio di emozioni primitive contribuivano alla formazione di uno spazio “terzo” tra soggetto e oggetto: un campo comune di energie emotive. Quindi, sembra che una prima ed essenziale nozione di “campo” in psicoanalisi si fonda sul concetto di fantasia inconscia bipersonale dei coniugi Baranger (e dallo sviluppo bioniano dell’identificazione proiettiva).

Questo modello tuttavia rischia di restare confinato entro i limiti di una dimensione “intersoggettiva” e “relazionale”, dove l’identificazione proiettiva funge da meccanismo propulsore nella formazione del campo, che risulterà quindi intriso di energie emotive in grado di imprimere ai legami affettivi presenti, turbolenze e variazioni complesse e imprevedibili. Anche se in questo senso, se appare come una configurazione quasi gestaltica di una situazione, esso si mostra sempre e comunque strutturato dal setting e dalle fantasie inconsce, restando quindi vincolato, esclusivamente all’incontro e alle reciproche esperienze emozionali tra i partecipanti, diventando così “luogo” perturbato, caratterizzato da intense variazioni di energia, orientate secondo particolari linee di forza, che occupano soprattutto lo spazio intersoggettivo-relazionale.

Il concetto di campo si si fonda sul modello teorizzato dalla psicologia della Gestalt. Kurt Lewin tenta di applicare ai gruppi la teoria del campo elettromagnetico di Faraday e Maxwell. Tale teoria concepisce lo spazio circostante ai corpi elettrizzati e magnetizzati, rappresentabile come campo nel quale solo le proprietà di questo ultimo sono essenziali alla spiegazione dei fenomeni: la diversità delle sorgenti non conta. Le interazioni, quindi, sono trasmesse mediante il campo perturbato. Saranno quindi le variazioni d’intensità delle cariche (perturbazioni), la loro velocità e distanza a determinare le trasformazioni complessive. Inoltre il campo non potrà essere osservato, ma solo inferito dall’effetto che avrà sui corpi (corpo di prova); anche se potrà essere descritto come un modello formale, usando il linguaggio matematico delle equazioni di Maxwell  che mettono in relazione le variazioni dei campi magnetici ed elettrici in un punto qualsiasi dello spazio e del tempo. Da qui Lewin trasse le sue considerazioni sul gruppo come risultante complessiva delle forze emergenti nel campo stesso e non più a partire dalle caratteristiche dei singoli membri: scenario in cui la totalità degli eventi è concepita come una trama di variabili interdipendenti e interagenti.

Corrao introdusse il suo modello a metà anni 80, dopo una lunga elaborazione del pensiero di Bion, tenendo sempre presente sullo sfondo l’epistemologia del modello fisico della teoria quantistica dei campi e introducendo (Corrao, F., 1985; Corrao, F., 1986) l’ipotesi di un concetto di campo come funzione il cui valore dipende dalla sua posizione nello spazio-tempo, come sistema ad infiniti gradi di libertà, forniti dalle infinite determinazioni possibili che esso assume in ogni punto dello spazio ed in ogni istante del tempo. Seguendo questa ipotesi il campo non è riducibile, né riconducibile, ad osservazioni fattuali di tipo percettivo, ma si fonda sui movimenti “fenomenologici eventuali”, casualmente invisibili e tuttavia deducibili e simbolizzabili, secondo un linguaggio scelto e mediante un’analisi appropriata degli effetti che il campo stesso produce; tale prospettiva rende questo ultimo rappresentabile in funzione delle variegate “trasformazioni cinetiche”. In questo modello non è centrale il concetto di forza o di potenza ma quello d’energia: l’energia, il modello energetico, che avevamo tanto criticato in Freud, adesso, mediante il concetto di campo, può essere reintrodotto. Energia non più concepita in termini di forze “vettorializzabili”, ma di impulsi, che implicano il concetto di propagazione, di espansione (Corrao, F., 1994).

Le teorie quantistiche sostengono che le condizioni locali non sono sufficienti per l’individuazione delle leggi di moto, ugualmente, per comprendere il significato di una pittura, non basta l’esame microscopico di tutte le sue parti: è il sistema fisico nel suo insieme che bisogna osservare. Ogni singolo punto del sistema si trova in ogni momento, in tutti i luoghi dello spazio complessivo che è a disposizione del sistema, e quindi non soltanto col campo di forza che si espande intorno a sé, ma  anche con la propria massa e con la propria carica. Lo spostamento di un punto non si rappresenta più come una curva ben determinata (una linea per intenderci), ma come un’onda materiale (originata dalla frequenza di vibrazione e dalla lunghezza d’onda). La rappresentazione dell’atomo non sarà più quella configurata nel modello del sistema planetario ma sarà quella di una carica nubiforme. Nella nuova teoria quantistica è il campo stesso, in quanto oggetto fisico a cui è associato un numero infinito di gradi di libertà, che appare sottoposto ad un processo di “quantizzazione”. Le particelle materiali sono concepite come quanti di campi energetici, e l’universo stesso può essere concepito come un insieme di campi in cui le particelle sono puri epifenomeni. In questo modo lo stesso dualismo tra energia e materia e tra campi e oggetti, è superato: la materia è ciò che si produce nelle trasformazioni quantistiche del campo. Quello che appare, ad un certo livello di osservazione, in quanto insieme di particelle dotate di una realtà indipendente, altro non sono, invece, che diverse intensità dei punti del campo e diverse configurazioni delle sue linee di forza.

Seguendo queste considerazioni Gaburri e Riolo, intendono il campo analitico come un campo emozionale, e cioè come  un sistema di trasformazione della realtà fattuale ad opera della realtà emozionale (Gaburri, E., 1997; Riolo, F., 1997). Il veicolo principale della trasformazione è rappresentato dalle “perturbazioni” affettivo-cognitive che determinano il rapporto tra soggetto e oggetto.

Il concetto di campo pertanto non si riassume in quello di relazione: ma è proprio dai limiti offerti dalla prospettiva relazionale che emerge la necessità di un modello più complesso. Per Riolo il campo si presenta connesso principalmente a ciò che va aldilà del soggetto e dell’oggetto nella relazione.

Quindi il modello di campo è un’evoluzione “non-lineare” che rispetto al modello relazionale ne sottolinea soprattutto l’elemento “terzo”: il contenitore comune emozionale. Questa dimensione “terza”, tra l’operatore e il paziente, perturba vicendevolmente gli elementi che simultaneamente la producono e che sono allo stesso tempo contenuti in essa. Questo genera imprevedibilità, depotenziando l’apparato teorico e cognitivo dell’operatore, obbligandolo ad una direzione più incerta, ma al tempo stesso meno prevedibile e forse più autentica: imprevedibilità, multicausalità e incoerenza. L’operatore, per ritornare brevemente alle questioni cliniche sopra esposte, rinuncia ai modelli teorici forti, ad uno stato mentale saturo di inutili ipotesi-protesi, accettando di esporsi, impegnandosi a non creare ostacoli alla realizzazione di un’esperienza nuova che può generarsi dagli imprevedibili cambiamenti autoorganizzativi del campo.

Il campo si configura quindi come l’insieme di pensieri non ancora pensati, emergenti dalla situazione piuttosto che dai singoli soggetti. A tal proposito Gaburri postula l’esistenza di un campo di pensieri prodotti dalla situazione, che, è bene ripeterlo ancora, solo in parte si genera con il campo relazionale, la relazione diviene solo una delle funzioni del campo; ipotesi forte ma possibile, questa prospettiva consentirebbe al terapeuta di accogliere elementi ancora non sufficientemente strutturati, rendendoli riconoscibili e maggiormente interpretabili: emozioni ancora indifferenziate, protopensieri, ma soprattutto quei movimenti trasformativi, ancora troppo scoordinati, che però cercano una consistenza ed una forma. Il campo ha quindi la proprietà di autoorganizzarsi indipendentemente dalla consapevolezza e dall’intenzionalità dei partecipanti. Da esso si può trarre un continuo lavoro di “digestione” delle esperienze emozionali, in uno spazio-tempo fluttuante ma tendente ad un ordine, che è in trasformazione, ma in attesa di raggiungere un significato, pensabile ed esprimibile, a volte comunicato (Gaburri, E., 1997).

Le fantasie, le atmosfere, invadono il campo condizionandolo; fenomeni come “il clima” di un contesto, le fantasie transgenerazionali o quelle atmosfere di depressione e noia, emergono dal campo come nuvole di pesantezza e negatività, non riconducibili esclusivamente ad aspetti relazionali, sembrano invece rinviare ad aspetti “protoemotivi” e pervasivi. Si supera qui la prospettiva di un modello fondato sul meccanismo dell’identificazione proiettiva di Bion e al modello di campo dei Baranger. (Correale, A., 1991; Neri 1993). Nei fenomeni di “clima emozionale”, il tipo di legame in gioco appare ancora più primitivo di quello basato sull’identificazione proiettiva e sulla relazione in genere, questo ultimo infatti implica sempre un passaggio da un soggetto all’altro e quindi una qualche relazione e differenziazione, nel nuovo modello al contrario si avanza l’ipotesi di un campo dove intervengono energie non vettoriali, di natura emotiva o proto-emotiva, che sembrano comportarsi come onde di propagazione energetica (Rugi, G., 1998).

E’ stato Antonino Ferro ha sviluppare questa concezione in modo innovativo. Egli considera il campo come uno spazio-tempo di intense turbolenze emotive che grazie all’azione intrinseca al campo, iniziano ad essere trasformate prevalentemente in immagini visive, che possono manifestarsi nel racconto, e dunque nella parola del paziente, ma anche nella reverie dell’operatore, nel suo controtransfert o in qualunque altro punto del campo. Per Ferro, il campo che si attiva e si trasforma, è una funzione del lavoro che non si intromette, che non decodifica, garantendo così quella trasformazione del clima, facilitata dalla stessa autoorganizzazione spontanea dell’insieme (Ferro, A., 1996)..

Qui si teorizza, pertanto, un modello di campo che funge da medium e che consente operazioni “trasformative”, narrative e piccoli insight, pur tuttavia, questo punto è fondamentale, senza mai cedere al bisogno di interpretare: il campo quindi, man mano che viene esplorato, si allarga di continuo, diventando matrice di storie possibili, molte delle quali restano depositate in attesa di germogliare, al suo interno contiene vari “nuclei di senso”, diversi tra loro e che si stratificano nel tempo (Ibidem).

Chianese lamenta l’esistenza di almeno dieci definizioni diverse di campo in ambito psicodinamico/psicoanalitico (Chianese, D., 1997).

Bion non ha mai teorizzato una vera e propria teoria del campo, ma è indubbio che le teorie bioniane costituiscono l’asse portante di un possibile modello psicoanalitico di campo che per primo riesce a rinunciare ai concetti d’inconscio e conscio, seno, e superando anche l’idea di separazione  e di legame, come possibili oggetti d’indagine, ponendo invece l’accento, in parte, sull’osservazione delle relazioni ma soprattutto sulle trasformazioni del sistema in quanto tale.

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