Analisi terminabile e interminabile e altri scritti freudiani (1935-1937)

La finezza di un’azione mancata (1935)
459-61
Freud stava preparando un regalo di compleanno per un’amica, una piccola gemma da incastonare in un anello. L’aveva fissata nel mezzo di un cartoncino rigido, sul quale aveva scritto le seguenti parole: “Buono per far preparare dall’orologiaio e gioielliere L. un anello d’oro… per la pietra qui acclusa raffigurante una barca con vela e remi.” Ma al posto lasciato in bianco, fra “d’oro” e “per”, c’era una parola che Freud dovette cancellare perché non c’entrava per niente. Si trattava della parola tedesca bis che significa “fino a”, e che in latino vuol dire “due volte”. Ecco la spiegazione che Freud dà del proprio insensato lapsus di scrittura: prima del secondo “per” gli era giunto il monito a non ripetere la stessa parola. Fu soddisfattissimo di questa soluzione, ma nelle autoanalisi il pericolo di incompletezza è particolarmente grande. Tant’è vero che la figlia, alla quale Freud racconta questa piccola analisi, sa subito come continuarla ricordandogli che già una volta in passato egli aveva regalato all’amica una pietra simile per un anello. Evidentemente l’obiezione era rivolta contro la ripetizione dello stesso regalo, non della stessa parola. Era avvenuto semplicemente uno spostamento su qualcosa di futile, nell’intento di stornare l’attenzione da qualcosa di più significativo: una difficoltà estetica ha preso il posto, forse, di un conflitto pulsionale.

A T. Mann per il suo sessantesimo compleanno (1935)
467
Nella lettera indirizzata a Thomas Mann in occasione del suo sessantesimo compleanno Freud scrive tra l’altro che fare degli auguri è cosa a buon mercato e gli sembrerebbe di ritornare ai tempi in cui si credeva all’onnipotenza magica dei pensieri. E conclude il suo messaggio con queste parole: “A nome di innumerevoli Suoi contemporanei, posso esprimere l’intima certezza che Lei non farà e non dirà mai – le parole del poeta sono infatti azioni – cose ignobili o meschine; anche in tempi e condizioni che rendono incerto il giudizio, Lei saprà trovare la via giusta e saprà indicarla agli altri.”

Un disturbo della memoria sull’Acropoli: lettera aperta a R. Rolland (1936)
473-81
In occasione del settantesimo compleanno di Romain Rolland, Freud gli scrive una lettera in cui racconta una particolare impressione da lui provata nel 1904, in un suo viaggio ad Atene insieme al fratello minore. Mentre si trovava sull’Acropoli, gli venne improvvisamente il pensiero singolare: “Dunque tutto questo esiste veramente, proprio come l’abbiamo imparato a scuola?!” Freud spiega che quell’intera situazione psichica, apparentemente confusa e difficile da descrivere, si chiariva facilmente con l’ipotesi che là, sull’Acropoli, egli avesse per un istante questo sentimento: “Ciò che vedo non è reale.” Secondo Freud, era quello il sentimento chiamato “di estraniazione”, che presenta due caratteristiche generali: la prima, che tutti questi fenomeni servono alla difesa, cercano di allontanare qualcosa dall’Io, di rinnegarlo; l’altra, che essi dipendono dal passato, dal patrimonio di ricordi dell’Io e da precedenti esperienze penose che forse da allora sono rimaste soggette alla rimozione.

Necrologio di L. Braun (1936)
487
Richiesto di un giudizio sul defunto Ludwig Braun, docente di medicina interna all’Università di Vienna, Freud afferma di non poter essere spassionato, in quanto quell’uomo di nobile ingegno ed eccellente sotto tutti gli aspetti era uno dei suoi amici più cari, suo confidente e per un certo periodo anche suo medico. Questa loro intimità si fondava senza dubbio sulla consapevolezza di numerose e profonde affinità.

Necrologio di L. Andreas-Salomé (1937)
493-94
Il 5 febbraio 1937 muore Lou Andreas-Salomé, a quasi settantasei anni. Ha legato gli ultimi venticinque anni della sua vita alla psicoanalisi: oltre che esercitarla nella pratica, ha recato importanti contributi scientifici. Di lei si sapeva che da giovanetta aveva stretto un’intensa amicizia con Friedrich Nietzsche, fondata sulla sua profonda intelligenza delle ardite idee del filosofo. Molti anni dopo, era stata al tempo stesso musa e madre sollecita del grande poeta Rainer Maria Rilke. Nel 1912 tornò a Vienna per essere introdotta allo studio della psicoanalisi. La figlia di Freud, Anna, sua intima amica, l’aveva udita rammaricarsi di non aver conosciuto la psicoanalisi negli anni della giovinezza. Ma naturalmente a quell’epoca la psicoanalisi non esisteva ancora.

Analisi terminabile e interminabile (1937)
1-2
499-507
Fin dagli esordi, sono stati effettuati alcuni tentativi miranti ad accorciare la durata delle analisi. Otto Rank nel libro Il trauma della nascita (1924) ipotizzò che la vera fonte della nevrosi sia l’atto stesso della nascita. Rank nutriva la speranza di poter liquidare tutta la nevrosi risolvendo successivamente, per via psicoanalitica, questo trauma originario. Per accelerare il corso di una terapia psicoanalitica usò l’espediente di porre una scadenza all’analisi. Il giudizio sulla validità di questa misura è che essa è efficace a patto che si sappia cogliere il momento giusto per adottarla. Essa non garantisce però che il compito venga assolto nella sua interezza. L’espressione “fine di un’analisi” può significare diverse cose. Sul piano pratico, l’analisi è terminata quando paziente e analista smettono di incontrarsi in occasione delle sedute. L’altro significato è di gran lunga più ambizioso. Ci domandiamo se l’azione esercitata sul paziente sia stata portata avanti a tal segno che da una continuazione dell’analisi non ci si possa ripromettere alcun ulteriore cambiamento. La forza costituzionale delle pulsioni da un lato, e il fatto, dall’altro, che l’Io, nel corso della lotta difensiva, ha subìto un’alterazione svantaggiosa, nel senso che è stato alterato e limitato, sono i fattori che pregiudicano l’effetto dell’analisi e che possono prorogarne indefinitamente la durata. Per gli scettici, essi dimostrano che neppure un trattamento psicoanalitico condotto a buon fine preserva l’individuo guarito a suo tempo dal pericolo di tornare in seguito ad ammalarsi di una nuova nevrosi – o addirittura di una nevrosi avente la stessa radice pulsionale della precedente – e dunque, in definitiva, dal pericolo di un ritorno del vecchio male. Gli ottimisti diranno che questa dimostrazione non esiste. La via per corrispondere alle richieste sempre maggiori che vengono rivolte alla cura psicoanalitica non porta all’accorciamento della sua durata, né lo attraversa.

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507-13
Sono tre i fattori determinanti per gli esiti della terapia psicoanalitica: l’influenza dei traumi, la forza costituzionale delle pulsioni e la modificazione dell’Io. Per decisivo che sia nei primissimi tempi il fattore costituzionale, si può tuttavia supporre che un rafforzamento pulsionale intervenuto successivamente possa produrre i medesimi effetti. Due volte, nel corso dello sviluppo individuale, si verificano rilevanti rafforzamenti di determinate pulsioni: alla pubertà e, nelle donne, alla menopausa. Non ci meravigliamo gran che quando apprendiamo che individui in precedenza non nevrotici lo diventano in questi periodi. Neppure noi raggiungiamo sempre in pieno, e dunque con sufficiente radicalità, il nostro obiettivo, che è quello di sostituire alle malcerte rimozioni dispositivi di controllo affidabili ed egosintonici. La trasformazione riesce, ma spesso solo in parte. L’analisi, con la pretesa di curare le nevrosi assicurando il controllo delle pulsioni, ha sempre ragione in teoria, ma non sempre in pratica. Si può trovare facilmente la ragione di questo parziale insuccesso. Il fattore quantitativo della forza pulsionale aveva contrastato a suo tempo i tentativi difensivi dell’Io, ed è per questo che abbiamo chiamato in soccorso il lavoro psicoanalitico; ebbene, ora quello stesso fattore pone un limite all’efficacia di questo nuovo sforzo. Di fronte a una forza pulsionale troppo grande, l’Io, ormai maturo e sostenuto dall’analisi, fallisce nel suo compito così come era fallito in precedenza l’Io immaturo e inerme; il controllo delle pulsioni, pur essendosi rafforzato, è rimasto difettoso perché la trasformazione del meccanismo difensivo non è stata completata.

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513-17
I due interrogativi – se sia possibile, durante il trattamento di un conflitto pulsionale, mettere il paziente al riparo da analoghi conflitti futuri, e se sia attuabile e opportuno destare in lui, a fini profilattici, un conflitto pulsionale che al momento non è manifesto – vanno trattati insieme, giacché il primo compito può essere assolto soltanto attraverso il secondo, trasformando cioè l’eventuale conflitto futuro in un conflitto attuale su cui si cerca di esercitare la propria influenza. Quando un conflitto pulsionale non è attuale, quando non si esprime, non c’è analisi che possa influenzarlo. Nella profilassi psicoanalitica dei conflitti pulsionali i soli metodi che potrebbero essere presi in considerazione sono: 1) la produzione artificiosa di nuovi conflitti sul terreno della traslazione (ai quali mancherebbe peraltro il carattere di realtà); 2) il risveglio di tali conflitti nell’immaginazione dell’analizzato, risveglio che può essere ottenuto parlandogli di questi conflitti e facendogli prendere confidenza con la loro eventualità. Si parla al paziente di diversi altri possibili conflitti pulsionali suscitando la sua aspettativa che anche in lui possano riprodursi situazioni di tal fatta. A questo punto si spera che la comunicazione abbia l’effetto di attirare in lui uno dei conflitti ai quali si è fatto cenno, in una misura moderata e tuttavia sufficiente per il trattamento. L’esito atteso non si produce. Abbiamo accresciuto le sue conoscenze, ma per il resto non abbiamo prodotto in lui alcun mutamento. Si possono fare analoghe esperienze quando si danno spiegazioni sessuali ai bambini.

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517-23
Per l’esito dello sforzo terapeutico, si è detto, gli elementi determinanti sono gli influssi dell’etiologia traumatica, la forza della pulsione che dev’essere padroneggiata, e una qualche modificazione dell’Io. La situazione psicoanalitica consiste nell’alleanza che noi stabiliamo con l’Io della persona che si sottopone al trattamento al fine di assoggettare porzioni incontrollate del suo Es. L’Io deve tentare di assolvere il suo compito, fungere da mediatore tra l’Es e il mondo esterno ponendosi al servizio del principio di piacere, proteggere l’Es dai pericoli del mondo esterno. Lo si abitua quindi, sotto l’influsso dell’educazione, a spostare lo scenario del combattimento dall’esterno all’interno, e a dominare il pericolo interno, prima che si trasformi in un pericolo esterno. Nel corso di questa lotta su due fronti l’Io si avvale di diversi procedimenti per essere all’altezza del proprio compito, ossia per evitare pericoli, angoscia, dispiacere. Noi chiamiamo questi procedimenti “meccanismi di difesa”. Nell’analisi i meccanismi di difesa contro i pericoli del passato ritornano nella cura sotto forma di resistenze contro la guarigione. La guarigione stessa è trattata dall’Io alla stregua di un nuovo pericolo. L’effetto che le difese provocano nell’Io può a buon diritto essere chiamato “modificazione dell’Io”, se con tale termine indichiamo il discostarsi da un fittizio Io normale in grado di garantire una fedeltà incrollabile all’alleanza per il lavoro psicoanalitico. L’esito della cura psicoanalitica dipende essenzialmente dalla forza e dalla profondità di tali resistenze che provocano un’alterazione dell’Io.

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523-29
Il singolo Io è dotato di disposizioni e tendenze individuali. Le proprietà dell’Io che noi avvertiamo sotto forma di resistenze possono essere state determinate per via ereditaria, o essere state acquisite durante le lotte difensive. Esistono vari tipi di resistenza. Ad alcuni individui siamo propensi ad attribuire una particolare “viscosità della libido”. Un altro gruppo di pazienti ha un comportamento che può essere ascritto soltanto a un esaurimento della plasticità, la capacità di cambiare e di svilupparsi ulteriormente. Fondamenti diversi e più profondi ancora hanno probabilmente quei caratteri distintivi dell’Io che, in un altro gruppo di casi, dobbiamo considerare come ciò che alimenta la resistenza contro la cura psicoanalitica e impedisce il successo terapeutico. Abbiamo a che fare qui con gli elementi ultimi cui la ricerca psicologica in quanto tale possa attingere: il comportamento delle due pulsioni originarie, la loro ripartizione, la loro commistione e il loro disimpasto. Studiando i fenomeni che testimoniano l’attività della pulsione di distruzione, non ci limitiamo a compiere osservazioni su materiale patologico. Ci sono stati in tutte le epoche, e ci sono tuttora, individui i quali possono assumere come oggetto sessuale sia persone del loro sesso sia persone dell’altro sesso, senza che uno di questi due orientamenti pregiudichi l’altro. I due princìpi fondamentali di Empedocle – philìa e neikos – sono la stessa cosa delle nostre due pulsioni originarie Eros e Distruzione, la prima delle quali tende ad agglomerare tutto ciò che esiste in unità sempre più vaste, mentre l’altra mira a dissolvere queste combinazioni e a distruggere le strutture cui esse hanno dato luogo.

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529-32
Una densa comunicazione tenuta da Sándor Ferenczi nel 1927, Il problema del termine dell’analisi, si conclude con la confortante assicurazione che l'”analisi non è un processo senza fine, ma anzi può essere portata a naturale compimento purché l’analista sia sufficientemente preparato e paziente”. Ferenczi aggiunge inoltre la preziosa considerazione che, ai fini dell’esito, è assolutamente decisivo che l’analista abbia appreso a sufficienza dai propri “sbagli ed errori” e sia riuscito a padroneggiare i “punti deboli della sua personalità”. È incontestabile che gli analisti non sempre hanno raggiunto nella loro personalità quel tanto di normalità psichica alla quale intendono educare i loro pazienti. Gli avversari dell’analisi usano appellarsi in tono di scherno a questa circostanza e la sfruttano come argomento per dimostrare l’inutilità del lavoro psicoanalitico. L’analista, a causa delle particolari condizioni cui è sottoposto il lavoro psicoanalitico, è effettivamente disturbato dai propri difetti quando si tratta di cogliere esattamente le condizioni del paziente e di reagirvi in maniera adeguata. La fine di un’analisi riguarda la pratica. Ogni analista che abbia esperienza riuscirà a ricordare una serie di casi in cui ha preso congedo dal suo paziente. L’analisi deve determinare le condizioni psicologiche più favorevoli al funzionamento dell’Io; fatto questo, il suo compito può dirsi assolto.

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533-35
Nelle analisi terapeutiche, e parimenti in quelle del carattere, due temi emergono con particolare rilievo dando all’analista una quantità inconsueta di filo da torcere. I due temi sono, per la donna, l’invidia del pene (l’aspirazione positiva al possesso di un genitale maschile) e per l’uomo la ribellione contro la propria impostazione passiva o femminea nei riguardi di un altro uomo. Ciò che questi due temi hanno in comune fu messo in rilievo molto presto dalla nomenclatura psicoanalitica come atteggiamento nei confronti del complesso di evirazione. In entrambi i casi ciò che soggiace alla rimozione è l’elemento del sesso opposto. La grandissima importanza di questi due temi, il desiderio del pene nella donna e la ribellione contro la propria impostazione passiva nell’uomo, non è sfuggita all’attenzione di Ferenczi. Nella sua comunicazione del 1927 egli sostiene che ogni analisi condotta a buon fine deve essere riuscita a padroneggiare questi due complessi. In nessun altro momento del lavoro psicoanalitico abbiamo una sensazione così dolorosa e opprimente della vanità dei nostri ripetuti sforzi, come quando cerchiamo di indurre le donne a rinunciare al loro desiderio del pene appellandoci al fatto che è un desiderio irrealizzabile, e come quando ci proponiamo di persuadere gli uomini che un’impostazione passiva nei riguardi di un altro uomo non sempre significa l’evirazione e in molti rapporti della vita è anzi indispensabile. Dalla caparbia sovracompensazione propria dell’uomo deriva una delle più forti resistenze di traslazione. La resistenza non consente che si produca alcun mutamento.

Estratti: Opere di Sigmund Freud (OSF) Vol 11: L’uomo Mosè e la religione monoteistica e altri scritti 1930-1938, Torino, Bollati Boringhieri, 2003.