Seminario VII: un vuoto causativo

Nei Tre saggi sulla teoria sessuale la questione della perdita dell’oggetto (seni, feci, fallo) è fondamentale. Il bambino da’ ordine alla strutturazione del corpo pulsionale proprio a partire dal luogo dove l’oggetto è perduto. Proprio lì si mostrano gli effetti di questa perdita. Basta pensare alle zone erogene (orale, anale, fallica).

Nel Seminario VII la perdita dell’oggetto è costitutiva dell’essere di ogni soggetto. Non c’è possesso pre-significante, originario o pre-linguistico dell’oggetto. L’impronta strutturale di questa perdita è alla base della condizione umana del desiderio. Il desiderio è subordinato all’impossibilità costitutiva di poter ritrovare l’oggetto del primo mitico soddisfacimento.

Da ciò prende origine quella fragilità costitutiva del desiderio che nostalgicamente si spinge verso la ricerca di qualcosa che essenzialmente resta introvabile.

Questa “nostalgia lega il soggetto all’oggetto perduto, nostalgia tramite cui si esercita tutto lo sforzo della ricerca. Essa caratterizza il ritrovamento del segno di una ripetizione impossibile, visto che per l’appunto non è lo stesso oggetto, non potrebbe esserlo[1].

Il vuoto inesprimibile della das Ding è alla base della nascita del corpo pulsionale. È un “vuoto causativo” nel senso che ha il potere di orientare il soggetto. È un vuoto che struttura il desiderio inconscio come permanentemente alla ricerca di quel godimento perduto, perduto per opera dell’azione significante.

Il desiderio qui non è più desiderio del desiderio dell’Altro. Non è neanche metonimia della mancanza-a-essere. Il desiderio qui è effetto di un vuoto, ossia è causato da ciò che resta dell’oggetto perduto. Il desiderio non è più causato dal desiderio dell’Altro ma da un oggetto, che è “causa del desiderio”: è l’oggetto piccola a. L’oggetto a discende dalla Cosa ma non è la Cosa. Questa è cancellata dall’azione del significante dell’Altro. L’oggetto a è ciò che resta di questa.  L’oggetto a è quel resto che il linguaggio non è riuscito del tutto a cancellare attraverso il simbolo, ma allo stesso tempo è un prodotto del linguaggio. Detto altrimenti, l’azione del linguaggio sulla Cosa genera l’oggetto a che è, a sua volta, ciò causa il desiderio orientato da una spinta impossibile verso il ritrovamento della Cosa perduta di cui l’oggetto a è solo una traccia. L’oggetto a non è identificabile con il godimento, determina piuttosto un godimento localizzato, ritagliato dal significante. Ciò crea l’illusione fantasmatica della possibilità di sostituire quella perdita definitiva di godimento generata dal significante che agisce sul corpo del soggetto.

Infatti per Lacan il “corpo è il luogo dell’Altro”. È il prodotto cioè dell’azione significante, è il prodotto della civiltà, per dirla con Freud. Il corpo educato, vestito, rinforzato, dimagrito, svezzato, tatuato. È un corpo abitato non dall’istinto, ma dall’Altro.

L’oggetto a fa le veci dell’oggetto perduto, barrato dal significante, ma l’oggetto a è anche ciò che resta a testimoniare questa perdita. L’oggetto a, per così dire, circoscrive le conseguenze di quella perdita dando al soggetto la possibilità di avere sì una sottrazione di godimento, ma anche un più di godimento. L’oggetto a è definito da Lacan anche con il termine di “plusgodere” (plus de jour). Esso è un  supplemento, un’aggiunta che supplisce a quella sottrazione di godimento che il significante arreca al soggetto.

Nel Seminario XVII Lacan fa derivare l’oggetto a da quello marxiano di plusvalore (Mehrwert). Il plusvalore equivale a quella parte di lavoro non remunerata dal salario. Grazie a questa sottrazione il capitalista ottiene il suo profitto. Sia il plusvalore che il plusgodere producono un plus derivante da una perdita originaria. Il “più” nasce dalla perdita, da un “meno” costitutivo. Il corpo pulsionale per Lacan si organizza attorno a questa perdita. L’oggetto a è allo stesso tempo effetto di questa perdita e tampone che compensa questa mancanza. La Cosa è perduta da e per sempre. Ci è dato trovarla esclusivamente in “altra cosa”, in autrechose[2]. La Cosa può essere ritrovata solo differendo, ancora una volta, per ogni volta, il suo ritrovamento, in altra cosa, ancora, altrove. Ciò segnala una struttura fondamentalmente sublimatoria della spinta pulsionale. La sublimazione consiste in un “elevare l’oggetto alla dignità della Cosa”[3], processo questo che dice qualcosa di quella nostalgia, di quel rimpianto, mai del tutto consolabile e che determina il desiderio umano. Il desiderio si ripete, in quel ritrovamento mai ultimato. Il desiderio mostra un tratto strutturale ancora più profondo di quello metonimico: la ripetizione.



[1] Jacques Lacan, Il Seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi. 1959-1960, Torino, Einaudi, 2008, p. 9.

[2] Jacques Lacan, Op. Cit., p. 151

[3] Jacques Lacan, Op. Cit., p. 142