Nel quadro degli Ambasciatori

Fonte: Jacques Lacan, Il Seminario – Libro XI – I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi 1964, Enaudi, Torino, 2003, p. 86-87.

Com’ è che nessuno ha mai pensato di evocare qui … l’effetto di un’erezione? Immaginatevi un tatuaggio disegnato sull’organo ad hoc in stato di riposo e che assume, in un altro stato, la sua forma, oserei dire, sviluppata.

Come non vedere qui, immanente alla dimensione geometrale – dimensione parziale nel campo dello sguardo, dimensione che non ha nulla a che fare con la visione in quanto tale – qualcosa che è simbolico della funzione della mancanza, dell’apparizione del simulacro fallico?

Ora, nel quadro degli Ambasciatori – che spero sia circolato a sufficienza per essere ormai passato tra le mani di tutti – che cosa vedete? Che cos’è quell’oggetto strano, sospeso, obliquo, in prima piano davanti ai due personaggi?

I due personaggi sono fissi, rigidi nei loro ornamenti di parata. Tra di loro, tutta una serie di oggetti che, nella pittura dell’ epoca, raffigurano i simboli della vanitas. Nello stesso periodo Cornelio Agrippa scrive il suo De vanitate scientiarum, che ha di mira sia le scienze sia le arti, e questi oggetti simbolizzano tutti le scienze e le arti cosi come, all’epoca, erano raggruppate nel trivium e nel quadrivium che voi sapete. Allora, che cos’è dunque, davanti a questa mostrazione del campo dell’apparenza nelle sue forme più affascinanti, che cos’è dunque questo oggetto, un po’ volante e un po’ inclinato? Non potete saperlo – poiché vi voltate, sfuggendo alla fascinazione del quadro.

Cominciate a uscire dalla stanza in cui, indubbiamente, vi ha a lungo avvinti. È allora che, voltandovi mentre state andando via – come descrive l’autore delle Anamorfosi – cogliete sotto questa forma, che cosa? – un teschio.

All’inizio non si presenta affatto cosi, questa figura che l’autore paragona a un osso di seppia e che a me evoca piuttosto quel pane da due libbre che Dalì, in un tempo lontano, si divertiva a porre sulla testa di una vecchia, scelta apposta molto misera, sporca, e d’altronde inconsapevole, o anche i suoi orologi molli, il cui significato, evidentemente, non è meno fallico di quello che si disegna in posizione volante, in primo piano in questo quadro.

Tutto ciò rende manifesto che, nel cuore stesso dell’epoca in cui si delinea il soggetto e si cerca l’ottica geometrale, Holbein rende qui visibile qualcosa che non è altro che il soggetto come annientato – annientato in una forma che, propriamente parlando, ( è l’incarnazione fatta immagine del (-ϕ) della castrazione, che per noi orienta tutta l’organizzazione dei desideri attraverso il quadro delle pulsioni fondamentali.

Ma è ancora più oltre che si deve cercare la funzione della visione. A partire da essa, vedremo allora delinearsi non il simbolo fallico, il simulacro anamorfico, ma lo sguardo in quanto tale, nella sua funzione pulsatile, eclatante e ostentata come è in questo quadro.

Questo quadro non è altro, come qualsiasi quadro, che una trappola per lo sguardo. In qualsiasi quadro, è precisamente quando si cerca lo sguardo in ciascuno dei suoi punti che lo si vede scomparire. Questo è ciò che cercherò di articolare la prossima volta.