L’universale fantastico e l’emancipazione dal principio di non-contraddizione: parte 2

Ieri ci siamo lasciati con una domanda dalla quale riprendiamo oggi: cosa realmente differenzia l’induzione del simile, dal sillogismo e dal sorite? La struttura logica è la stessa: un terzo termine correla gli altri due.  << La differenza – come ricorda la Di Cesare – sta piuttosto nei nessi predicativi >>[1]. Nel sillogismo il termine medio non correla cose appartenenti  a generi differenti, ma trae da se stesso, dal suo stesso genere, quanto è già in esso contenuto, <<La predicazione, dunque, si attua nel sillogismo all’interno del genere e non varca i confini. Da qui la sua forza dimostrativa, e da qui anche il suo carattere di necessità e di universalità >>[2]. Quindi il suo risultato non può andare al di là di quello che, in certo qual modo, è già stato pattuito. C’è una “parcellizzazione” della realtà attraverso generi e specie. Questo “incapsulamento” costituisce, per dir così, lo scenario sul quale si costruisce (e quindi opera e recita), il nesso predicativo , il quale non può che rimanere imprigionato nel “ventaglio” delle premesse stesse, le quali costituiscono il reale sostegno di tutto il ragionamento sillogistico.

Per il sorite è lo stesso. Esso lega cause a cause ed è  addirittura peggio del sillogismo, in quanto << […] chi adopera il sorite è tanto più “sottile” di chi si serve del sillogismo, in quanto nei generi è maggiore grossolanità che non nelle ragioni specifiche di ciascuna cosa >>[3]. Il sorite, per Vico, corrisponderà al metodo logico-deduttivo ossia al << metodo geometrico cartesiano >>[4], esso, tra l’altro, è ancora più limitato del sillogismo, perché in esso la predicazione si svolge all’interno della “specie”,: dice ancor  meno rispetto a quest’ultimo, ed inoltre << più che a scoprire cose nuove, giova a comporre ordinatamente cose già note >>[5].

La nominazione fantastica si realizza attraverso l’induzione del simile, proprio in quanto essa si realizza basandosi su un’unica somiglianza. Nell’induzione del simile, la predicazione non opera “obbiettivamente”, come nel caso del sorite o del sillogismo, ma attraverso il ritrovamento creativo del terzo termine: l’argumentum.

L’universale fantastico segna la nascita di un “nome”, il quale raccoglie in sé quell’unico tratto simile, che è la traccia più limpida che l’induzione del simile si lascia dietro. Esso “incarna” un individuo, e lo fa senza definire o descrivere. Non c’è una rubricazione di tratti simili raccolti per via razionale, volti a costituire una definizione – posizione questa, che s’incontra ancora nel De Antiquissima[6]. Il quid, l’essenza delle cose, qui è ancora ignoto ed inesprimibile. Anche se, quando il filosofo napoletano chiamerà finzioni, sia il punto che l’unità,  sembrerà essere già qui consapevole che << pure essendogli negato di possedere gli elementi delle cose, per mezzo dei quali queste vengono a esistere in modo certo, l’uomo può ben fingersi elementi di vocaboli, eccitatori a loro volta di idee non possibili di controversia >>[7]. Qui, Vico, getta i giusti presupposti di quello che poi sarà il cardine della Scienza nuova: la nominazione fantastica, la quale non darà più il nome alle cose del mondo, ma si fingerà un mondo. L’uomo diventa alter deus, proprio grazie al fallimento della pura razionalità, riappropriandosi  di quella aurorale sapienza poetica.

Cerchiamo adesso, attraverso una rapida rassegna di alcune posizioni della filosofia del linguaggio del nostro secolo, di cogliere alcune implicazioni di questa tesi vichiana della nominazione fantastica, le quali valgono a dotarle di un più attrezzato spessore teorico.


[1] D. Di Cesare, Sul concetto di metafora in G. B. Vico, cit., p. 332.

58 Ibidem.

[3] G.B. Vico, Dell’antichissima sapienza italca, cit., p. 301.

[4] Ivi, p. 302.

[5] Ibidem.

[6] << Di certo, il fisico non può definire le cose conforme a verità, ossia attribuire loro la natura peculiare a ciascun  e diventare per tal modo il creatore: ciò, consentito soltanto a Dio, viene negato all’uomo. Tuttavia può ben definire i nomi delle cose […] >> G.B. Vico, Dell’antichissima cit., p. 253.

[7] Ibidem.c.vo mio.