Le emozioni sono “cose” che stanno dentro di noi? (2/40)

Le emozioni viaggiano per una strada tutta loro, indipendente dalla nostra volontà e non sono influenzabili dalle nostre pianificazioni, ed è proprio per questo che sono autentiche, genuine, anche in quanto espressione diretta della nostra corporeità (prelinguistica?). Riusciamo a rappresentarcele, non solo linguisticamente, ma sempre in modo ambiguo, imperfetto, vago.  L’emozione è inscritta nel corpo che ne è l’unico luogo della sua espressione, inscalfibile da ogni influsso culturale o sociale: sono qualcosa di innato. Quindi, fenomeno strutturalmente corporeo, trasversale alla nostra volontà o conoscenza, è una esperienza individuale, che si svolge “dentro”. L’emozione si subisce, è innata, non si apprende, come si può apprendere a scrivere o a guidare una bici. Quindi, le emozioni non sono contaminate dalla cultura, si subiscono, sfuggono al controllo. Da un certo momento in poi impariamo a nominare (chi meglio chi peggio) le nostre sensazioni corporee che riusciamo ad indicare approssimativamente, attraverso un processo di sintesi e, comunque, l’aver assegnato ad una certa sensazione un certo nome, forse anche quello giusto, quello più accreditato dalla comunità dei parlanti, non ci assicura che sia quello giusto.

Quasi tutte le teorie sulle emozioni implicano una concezione “cosale” di fondo: le emozioni sono cose che stanno dentro di noi.

Noi diamo loro un nome, proprio come facciamo con qualunque altro oggetto. Una sensazione diventa simile ad uno stato di fatto che le solidifica in un nome, che è privo però di quella fluidità dinamica che la caratterizza.

Qualcuno che volesse insegnare ad un bambino come nominare una sensazione corporea potrebbe farlo parlando delle sensazioni corporee come se queste fossero degli oggetti materiali. Questa è una sedia. Questa è la tristezza.

È così che costruiamo la grammatica delle espressioni di ciò che proviamo come sensazioni.

Riesco ad essere cosciente di me, ma attraverso di te.

Le sensazioni riconducibili ai nostri stati interni sono identificate solo successivamente alla loro esplosione, è nella fase finale di un processo di emergenza che ne abbiamo coscienza.

Le azioni attraverso le quali individuiamo queste sensazioni sono apprese, implicano un riconoscimento, un tempo di valutazione.

Come sappiamo riconoscere le nostre sensazioni? Come facciamo ad imparare a chiamarle come se fossero oggetti, che stanno dentro un luogo spaziale che le contiene? La parola “tristezza” non designa un oggetto che preesiste (come la parola “bottiglia” per “la bottiglia che è sul tavolo ed era lì anche un minuto fa”), la parola, essa stessa, è una esperienza vissuta nell’hic et nunc. Allora, se dico, sono contento oppure sono felice a cosa mi riferisco se non ad uno stato interno preesistente, cioè che c’era prima che dicessi “sono felice”? Una parola che fa qualcosa in più di designare un oggetto, in questo caso è un comportamento. È interessante questa prospettiva di ragionamento e Wittgenstein ha insistito molto anche sulle articolazioni significanti minimali tipo le espressioni “ahi!” che non esprimono qualcosa, ma una condizione somatica. La parola “dolore” non traduce tout court l’espressione, il grido “ahi!”. “Ahi” è un comportamento che indica (ma come?) l’esperienza del dolore.