La verità nelle mani dell’Altro

Fonte: Jacques Lacan, Il Seminario – Libro XI – I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi 1964, Enaudi, Torino, 2003, pp. 36-40.

Cartesio dice – Sono sicuro, per il fatto che dubito, di pensare, e  – per limitarmi a una formula non più prudente della sua ma che ci evita di discutere dell’io pensoPer il fatto di pensare sono. Notate di sfuggita che, eludendo l’io penso, io eludo la discussione che risulta dal fatto che questo io penso, per noi, non può sicuramente essere distaccato dal fatto che egli può formularlo solo dicendolo, implicitamente – cosa che è da lui dimenticata. Punto che, per il momento, lasciamo da parte.

In modo esattamente analogico, Freud, laddove dubita – dato – he in fin dei conti sono i suoi sogni ed è lui che, in partenza, dubita – è sicuro che lì c’è un pensiero che è inconscio, il che vuoI dire che si rivela come assente. E in questo posto che egli invoca, non appena ha a che fare con altri, l’io penso tramite cui si rivelerà il soggetto. Insomma, di questo pensiero egli è sicuro che è li da solo con tutto il suo io sono, a condizione che – ecco il salto – qualcuno pensi al suo posto. Qui si rivela la dissimmetria tra Freud e Cartesio. Essa non sta nel modo di procedere iniziale della certezza fondata del soggetto. Ma deriva dal fatto che, in questo campo dell’inconscio, il soggetto è a casa propria. Ed è perché Freud ne afferma la certezza che si ha quel progresso attraverso il quale egli cambia il nostro mondo.

Per Cartesio, nel cogito iniziale – i cartesiani mi concederanno questo punto, ma lo anticipo per la discussione – ciò a cui mira l’io penso, in quanto si rovescia nell’io sono, è un reale-ma il vero resta talmente al di fuori che è necessario, poi, a Cartesio accertarsi, di che cosa? – se non di un Altro che non sia ingannatore e che, oltretutto, possa con la sua sola esistenza garantire le basi della verità, garantirgli che nella sua propria ragione oggettiva ci sono i fondamenti necessari affinché quel reale stesso di cui si è appena accertato possa trovare la dimensione della verità. Posso solo indicare la prodigiosa conseguenza di questo rimettere la verità nelle mani dell’Altro, in questo caso Dio perfetto. La verità è affar suo poiché, qualsiasi cosa avesse voluto dire, sarebbe sempre stata la verità – anche se avesse detto che due e due fanno cinque, ebbene sarebbe stato vero.

[…]

Più tardi , nella celebre osservazione di una omosessuale, egli si fa gioco di quanti , proposito dei sogni della stessa, possono dirgli – Ma dov’è, allora, quel famoso inconscio che doveva farci accedere al più vero? A una verità –ironizzano – divina? Ecco che la Sua paziente se la ride di Lei, dato che, nell’analisi, ha fatto dei sogni apposta per persuaderLa che ritornava a quello che le si chiedeva, al gusto per gli uomini. Freud non vede nessuna obiezione da fare. L’inconscio – ci dice – non è il sogno. Detto da lui, vuol dire che l’inconscio può esercitarsi nel senso dell’inganno e che la sua affermazione non ha, per lui, alcun valore, di obiezione. Infatti, perché non dovrebbe esserci una verità della menzogna, quella verità che rende perfettamente possibile, contrariamente al cosiddetto paradosso, che si affermi – Io mento.

[…]

Ne sogno la omosessuale, ingannando Freud, fa ancora una sfida che concerne il desiderio del padre – Lei vuole che io ami gli uomini, ne avrà di sogni di amore per gli uomini. È la sfida sotto forma di derisione.

[…]

Ebbene! Per quanto riguarda l’inconscio, Freud riduce tutto ciò che viene alla portata del suo ascolto, alla funzione di puri significanti. Qualcosa opera a partire da questa riduzione e può apparire, dice Freud, un momento di concludere – un momento in cui egli sente il coraggio di giudicare e di concludere. Questo fa parte di quella che ho chiamato la sua testimonianza etica.