Impossibile armonia (1/3)

Di quale soggetto parliamo se l’inconscio è strutturato come un linguaggio? E dunque, di quale armonia possibile parliamo quando operiamo con la psicoanalisi?

Lacan parla di soggetto dell’inconscio a partire dal fatto che il significante rappresenta un soggetto per un altro significante[1]. Il soggetto può avere accesso all’Altro facendosi rappresentare da un significante, alienandosi così nell’Altro, sparendo come vivente e perdendosi nelle articolazioni, nella concatenazione dei significanti.

Il soggetto si aliena annullandosi sotto la marca dell’Altro. E dunque, dove si colloca il soggetto in quanto alienato nel significante, nella marca dell’Altro?

In Posizioni dell’inconscio Lacan parla di separazione come operazione di distaccamento del soggetto dalla catena significante, è qui che possiamo trovare la “causazione del soggetto”[2] e non nei fenomeni di coscienza.

Lacan insiste sul fatto che l’inconscio non è il negativo del cosciente come comunemente si intende. L’inconscio non è ciò che momentaneamente risulta inaccessibile alla coscienza e che prima o poi lo diventerà, anche per questo Lacan più avanti nella sua ricerca userà il termine parlêtre[3] al posto di inconscio, proprio per eliminare dal campo questa confusione riformula il concetto dell’inconscio come non solo strutturato come un linguaggio ma anche come pulsazione, battito di apertura e chiusura in relazione al corpo. La questione fondamentale diventa come l’organismo viene ad impigliarsi nella dialettica del soggetto. Qualcosa resta impigliato nel simbolico: l’organismo fa inceppare la macchina dell’inconscio, lo porta a chiudersi, è ciò che possiamo cogliere nello schema della nassa.[4] Forse, puntando al disincaglio del simbolico dal corpo è possibile ottenere la tanto anelata armonia?

L’alienazione implica l’apertura, l’emersione delle concatenazioni significanti, la separazione comporta invece la chiusura sulla dimensione pulsionale, tuttavia, nel processo di alienazione-separazione emerge la questione del soggetto come “cogito” che Lacan sviluppa nel Seminario XI a partire da una sua riformulazione del paradosso irrisolvibile del mentitore: “Io mento”, che apre alla domanda: “dico la verità o mento?”, essendo un enunciato che asserisce qualcosa sul soggetto (che mentirebbe) e non su un fatto ben determinato del quale è possibile determinarne la veridicità o la falsità.

Lacan risolve il paradosso sottolineando la differenza che c’è tra enunciato e enunciazione. L’Io dell’“Io mento” si riferisce al piano dell’enunciazione, “mento” a quello dell’enunciato come significante dell’Altro. Quindi, l’enunciato “Io mento” enuncia (cioè, come enunciazione diventa) “Io ti inganno” che esprime perfettamente la formula lacaniana secondo la quale il soggetto riceve il proprio messaggio dall’altro in forma invertita.

Ora, riprendendo il discorso dell’alienazione nel significante, per Lacan il soggetto dell’inconscio è il soggetto del desiderio e va al di là della coscienza soggettiva, della res cogitans cartesiana come homunculus in grado di guidare la macchina del corpo. Qualcosa sabota la res cogintans, qualcosa fa inceppare la macchina significante che, tuttavia, causa il soggetto:

«[…] noi simbolizziamo con $ barrato il soggetto in quanto costituito come secondo rispetto al significante. […] Il primo significante è la tacca con cui viene segnato […] Sul tratto unario, il soggetto stesso si orienta. E in primo luogo esso si segna come tatuaggio, primo dei significanti.»[5]

Il soggetto è secondo rispetto al significante. Su questo punto Lacan non fa sconti:

«Nella pratica analitica, reperire il soggetto rispetto alla realtà, così come la si suppone ci costituisca, e non rispetto al significante, significa cadere già nel degrado della costituzione psicologica del soggetto»[6].

Questo comporta una conseguenza molto importante:

«Non possiamo non includere il nostro discorso sull’inconscio nelle tesi stesse che esso enuncia: la presenza dell’inconscio situandosi nel luogo dell’Altro, in ogni discorso è da cercare nella sua enunciazione»[7].

Enunciazione che pur rivolgendosi allo psicoanalista non può essere ridotta ad un fenomeno intersoggettivo che accade nell’incontro tra due coscienze. Infatti, Lacan distingue l’io del cogito, soggetto dell’enunciazione dall’io shifter in quanto soggetto dell’enunciato. Quest’ultimo varia, è cangiante è, cioè, un’etichetta che indica il soggetto che parla in quel dato momento che è diverso dal soggetto nell’atto del parlare in quanto soggetto dell’enunciazione, soggetto cioè che incontriamo nella parte superiore del grafo del desiderio a differenza dell’io shifter che incontriamo nella parte inferiore.

Questa distinzione è fondamentale per cogliere anche la differenza tra la psicoterapia cognitivista (o la psicologia dell’io, tanto per intenderci) incentrata su una concezione clinica del soggetto dell’enunciato, cioè fondata su una concezione del linguaggio inteso come descrizione della realtà, dove sono le conoscenze detenute dal terapeuta a guidare il lavoro clinico e psicoanalisi (aggiungerei, lacaniana) che invece concepisce la clinica come atto, cioè come enunciazione: parola in atto e non espressione di un sapere frutto (soltanto) di una specifica preparazione.

Lo stesso Lacan, nella fase iniziale delle sue ricerche, si è lasciato ispirare da Karl Jaspers[8], ovvero dalla psichiatria fenomenologica che si fonda sulla differenza tra il concetto di “spiegazione”, Erklarung e “comprensione”, Verstehung[9], differenza che emerge chiaramente nel caso di Aimée illustrato da Lacan nella sua tesi di dottorato. Il fenomeno umano non può essere trattato con il metodo oggettivo della scienza fondato sul processo di causazione empirica ma, piuttosto, in esso abbiamo in gioco il rapporto complesso tra senso e causa.

Successivamente, come è noto, Lacan prenderà le distanze da questa idea. In particolare, nel Seminario III, criticherà la “relazione di comprensione” fondata sul concetto di Einfuhlung, di “empatia”, che relegherà nel registro dell’immaginario. Nel Seminario III, infatti, Lacan predilige il registro simbolico, proseguendo la sua ricerca iniziata nel Seminario I e II a partire dalla sua posizione in merito alla psicologia dell’Io che considera riconducibile, appunto, al registro dell’immaginario.

L’introduzione del registro simbolico gli consente di andare al di là della psichiatria fenomenologica per aprirsi a una dimensione “transfenomenologica” che va al di là dell’esperienza immediata, al di là cioè del vissuto e della sua possibile comprensione empatica. Lacan insiste sul fatto che il significato è sempre soggetto all’interpretazione, esso, cioè, passa sempre dalla dimensione dell’Altro, del simbolico. È il rapporto con la parola a segnare l’esistenza umana. La verità del soggetto è possibile trovarla nella sua parola e non nella realtà o nella concezione dell’uomo come essere autonomo e indipendente dagli effetti del simbolico.


[1] J. Lacan, Sovversione e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano, in Scritti, Vo. 2, Einaudi, Torino, 1974, p. 822.

[2] J. Lacan, Posizioni dell’inconscio, in Scritti, Torino, Einaudi, 1974, Vol. II, p. 843.

[3] J. Lacan, Joyce il sintomo, in Altri Scritti, Torino, einaudi, 2013, p. 558.

[4] J. Lacan, Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi 1964, Torino, Einaudi, 2003, p. 140.

[5] Ivi, p. 138.

[6] Ibidem.

[7] J. Lacan, Posizioni dell’inconscio, in Scritti, Torino, Einaudi, 1974, Vol. II, p. 837.

[8] K. Jaspers, Psicopatologia generale, Il pensiero Scientifico Editore, Roma, 1982.

[9] Per un chiarimento su questa differenza si veda W. Dilthey, Critica della ragion storica, Einaudi, Torino 1982.