Il senso comune (parte 2)

Il “senso comune” è la “guida pratica” alla vita e i loci communes, oggetto dell’indagine della topica,  sono il fondamento di quella pedagogia che sta tanto a cuore al filosofo napoletano, pedagogia che deve garantire anche ( per me  soprattutto) quella chiarezza di idee, che si origina proprio da quel riuscire a scorgere somiglianze in cose diverse e separate tra loro, riuscendo a reperire il “termine medio” e ribadendo così come il senso comune non debba essere soffocato dalla conoscenza deduttiva della critica.

L’arte del reperire il termine medio garantisce di << passare mentalmente in rassegna, come una sorta di alfabeto, l’intero repertorio dei luoghi comuni relativi agli argomenti in discussione, [garantendo] la capacità di scorgere tempestivamente in qualsiasi causa gli aspetti aventi forza persuasiva>>[1]. Se ai critici, durante una discussione, venisse posta una questione dubbia essi, invece, risponderebbero: << Mi si lasci il tempo di rifletterci sopra >>[2]. Qui, Vico s’impegna arditamente nella difesa della topica, ricordando, come essa,  non solo non si trovi ad avere di fatto la precedenza, rispetto alla critica,  ma che essa  è totalmente ignorata, esclusa dall’insegnamento, e che ciò – scrive il Vico – : << è sbagliato, perché come il reperimento degli argomenti precede il giudizio sulla loro rispondenza al vero, così l’insegnamento della topica deve precedere quello della critica>>[3]. La topica sta ad indicare proprio lo studio dei “luoghi comuni”, degli “argomenti” che, l’esperienza della vita raccoglie relativamente a qualunque soggetto di discussione, e  che per il filosofo napoletano sono strettamente connessi all’inventio. La topica e l’inventio coincidono nel senso, che il quale crea non partendo dalla memorizzazione di repertori già schematicamente strutturati, ma agisce come sempre su nuove ed illuminante associazione di idee[4].

Vico spesso insiste sul carattere assolutamente spontaneo, naturale, dell’atto con cui si genera ogni favola, ogni carattere poetico; la poesia nasce dalla << robustezza dei sensi >> che angustia la mente dell’uomo e che rende i poeti teologi incapaci di intendimento anche se però essi  << con uno più sublime lavoro tutto contrario, diedero sensi e passioni […] à corpi, e vastissimi corpi quanti sono cielo, terra, mare; che poi, rimpicciolendosi così vaste fantasie e invigorendo l’astrazioni, furono presi per piccioli loro segni >>[5].

Nella quinta sezione del secondo libro della Scienza nuova, precisamente nel secondo capitolo intitolato “Le repubbliche tutte son nate da certi principi eterni de’ feudi”, Vico ci racconta dei princìpi della politica, trattati nel precedente capitolo della storia romana seguendo il percorso di quattro caratteri poetici: <<  prima dalla lira d’Orfeo ovvero d’Apollo; secondo, dal teschio di Medusa; terzo dai fasci romani; quarto ed ultimo, dalla lotta d’Ercole con Anteo >>[6]. La “lira” donata da Ermes ad Apollo (anche se Vico qui dice l’opposto: ma non importa!) per rabbonirlo del furto di cinquanta giumente rubate dalle mandrie dello stesso Apollo, e che poi fu di Orfeo << rappresenta l’unione delle corde o forze dei padri >>[7] dalla quale unione nacque l’impero civile e finì la proprietà privata, fatta eccezione per i poeti teologi fondatori delle nazioni.

Poi << le serpi unite nel teschio di Medusa >>[8] con le due ali incastonate nelle tempie indicano le terre coltivate (serpi) e i diritti degli eroi (ali), il tutto rappresenta: << i domini alti famigliari che avevano i padri nello stato delle famiglie, ch’ andarono a comporre il dominio eminente civile >>[9].


[1] Ivi, p. 58.

[2] Ibidem.

[3]Ivi p. 57.

[4] Ivi, cfr. nota del curatore n. 13.

[5] S.N., 402.

[6] Ivi, 614.

[7]Ivi, 615.

[8]Ivi, 616

[9]Ibidem.