Il fantasma di Ercole

Mentre Bacco addomestica le tigri <<che dovetter esse le terre vestite così di vari colori come le tigri han la pelle, e passonne poi il nome di “tigri” agli animali di tal fortissima spezie >>, Ercole raccoglie e riporta le spighe di un pregiato frumento: il “pomo d’oro” da Esperia: l’Ercole gallico con le catene di quest’oro, le quali gli escon di bocca, incatena gli uomini per le orecchi[1] .

Le spighe del frumento furono il primo oro del mondo. Vico si cimenta in una straordinaria ricostruzione dell’origine del nome oro che sembra derivare: “dalla somiglianza del colore e sommo pregio di cotal cibo [cioè delle spighe del frumento] in que’ tempi […] nel tempo che l’oro metallo era in zolle, né se ne sapeva ancor l’arte di ridurlo pregiato in massa, nonché di dargli lustro e splendore”[2].

I pomi d’oro rappresentavano il dono di nozze fatto da Gea a Era e,  proprio le “Dee del Tramonto” (Esperidi) avevano l’incarico, coadiuvate dal drago Landone, di proteggere il giardino degli dèi dove giacevano questi pomi d’oro.

Così il Nilo sarà detto << scorrente d’oro perché allarga i larghi campi di Eggitto >>[3] favorendo l’abbondanza dei raccolti. E sarà sempre questo frumento, << quest’oro poetico >> che darà ai greci l’espressione << età dell’oro >>.

<< Ogni nazione gentile ebbe un suo Ercole, il quale fu figliolo di Giove >>[4]; Ercole fissa il principio dell’eroismo dei primi popoli, una di quelle idee nate in  più e diverse nazioni che pur non conoscendosi tra loro, svilupparono questo stesso carattere poetico. Ercole è una delle voci fondamentali del dizionario mentale che il Vico sta compilando, esso è il carattere della nobiltà, del guerriero e dell’amministratore della legge nelle città eroiche, esso è un chiaro esempio del fatto che proprietà essenziale dell’universale fantastico è essere  sia “vero”, perché esso porta con sé la conoscenza opaca che non affermando troppo in-dica la verità: << conoscenza del vero >>; sia “certo”, perché esso comunque è una traccia che l’uomo lascia e tramanda storicamente: << coscienza del certo >>.

Le prime favole, i primi riti, le prime tracce di una speculazione cosmogonica nascono dagli originari caratteri poetici. Lo strumento originario che Vico considera fortemente conoscitivo  quindi è proprio  la fantasia: essa riesce ad entrare nelle cose guardando alla loro essenza.

Nella Repubblica, precisamente nel X libro, Platone condanna la poesia come manifestazione di qualcosa che dissuade dalla verità della pura idea, ma  ciò nonostante descriverà anche l’importanza incommensurabile che la “fantasia divina” ha in quanto facoltà portatrice di conoscenza. La mente umana crea “fantasmi” (phantàsmata), manifestazioni sensibili  che stanno a fondamento di ogni conoscenza.

Anche in Vico sembra esserci il richiamo ad una concezione della poesia originata dal divino. Ma in Vico si assiste ad una sorta di “bestializzazione” del divino, l’originarietà viene colta solo attraverso il patire che grazie alla fantasia  si trasforma in immagine,  cioè nei caratteri poetici comuni alle nazioni: << Giove fulmina ed atterra i giganti, ed ogni nazione gentile n’ebbe uno >>[5].


[1] S.N., 546.

[2] Ivi, 544.

[3]Ivi, 546.

[4] Ivi, 196.

[5] Ivi, 193.