Dalla “definizione” alla “finzione”: parte 2

Un’altra tesi contrastante quella che troveremo enunciata nel Diritto universale e nelle varie redazioni della Scienze nuova,  evidenzia come la lingua (in questo caso latina) oltre ad avere un’origine dotta, nasca per impulso di un popolo, di una nazione più colta delle altre: “Pertanto, avendo io osservato che il latino formicola di espressioni abbastanza dotte, e, d’altra parte, poiché la storia attesta che sino ai tempi di Pirro gli antichi romani non si occuparono d’altro che di cose attinenti all’agricoltura e alla guerra, congetturai che essi avessero tratto quelle locuzioni da una diversa e colta nazione, e se ne fossero avvalsi senza sospettarne il significato originario”[1].

Già nel De Antiquissima, troviamo una concezione dell’uomo in grado di creare, “similmente” a Dio. Il fare creativo dell’umanità si realizza propriamente nel dare il nome alle cose. Come avremo modo di approfondire nel proseguito di questa indagine, il noto << rapporto di reciprocità >> o di convertibilità, che lega, che rapporta, il vero con il fatto, e viceversa, in questa fase del pensiero vichiano, deve leggersi, proprio in vista dell’atto nominativo, cioè nel “battesimo” (o meglio battesimi), che l’uomo celebra ogni volta che dà un nome a qualcosa o qualcuno. Ma qui “dare un nome”, corrisponde a “dare un significato” nel senso di “definire” ; infatti l’uomo << va raccogliendo gli elementi della scrittura con i quali si compongono le parole >>[2]. L’uomo pensa e Dio intende. L’uomo conosce raccogliendo i brandelli delle cose, Dio raccoglie tutti gli elementi delle cose, tutto d’un colpo. L’uomo raccoglie solo gli elementi estrinseci, Dio sia questi che quelli intrinseci. L’inventio umana si realizza, s’invera,  nel fare umano, che qui non è ancora quel  fare, che troverà la sua realizzazione nella Scienza nuova, cioè in quel signi-ficare, in quel fingere, dando i nomi alle cose, che “identificherà” (e non più assimilerà solo, come si notava sopra) l’uomo a Dio, rendendolo sacer-dote, donatore di sacro. No, qui, nel De Antiquissima, l’unico vero accessibile all’uomo è quello dato dal << definire il nomi delle cose >>. L’uomo essendo impossibilitato nel possedere tutti gli elementi delle cose, definisce con la parola un quid indefinibile, il quale continua a rimanersene lì, in un non- luogo, altro da noi.

Questa concezione verrà rivoluzionata in seguito, in quanto egli, oltre che rampognare i sostenitori della tesi “convenzionalista” , cioè coloro  affermavano che la lingua sarebbe nata << a’ placito >> , s’impegnò nel sostenere che il linguaggio trova la sua origine nella finzione. La finzione generata dalle passioni, dal patire, causato dalla robustezza dei sensi. Nella scienza nuova inventata da Vico, il vero si realizza nella finzione e non più nella definizione.


[1] << Di  popoli colti dai quali potettero togliere, ne trovo due: gli ioni e gli etruschi. […] Insomma, ritengo per fermo che da ioni ed etruschi provengano le origini dotte delle parole latine >>G. B. VIco, Dell’antichissima sapienza italica, p. 244-245.

[2] Ivi, p. 249.