Spazio scenico come luogo di rinascita

Favorire la formazione di un’area transazionale, questa, è una delle funzioni principali che un operatore di una Comunità Terapeutica ha. Dall’area transizionale dipende la possibilità di mantenere un contatto con il mondo esterno, significato, modificabilità: è  uno spazio come “altro” esistente indipendentemente dalla propria solitaria onnipotenza.

Gli operatori, con le loro funzioni, costruiscono quella trama esperienziale necessaria per fare spazio alla soggettività dei pazienti. La distribuzione delle funzioni, degli orari, la programmazione delle varie attività, comunicazione delle eventuali variazioni, tutto ciò concorre alla formazione di quello spazio scenico in grado di fare spazio alla nascita del soggetto. Ciò crea le condizioni per la creazione di un luogo dove poter rinnovarsi, con nuovi ricordi, nuove esperienze, attraverso nuovi desideri, attraverso quella che Pedriali definisce la “rappresentazione comunitaria”, ossia la messa in scena, con l’ausilio sia dei pazienti che operatori, della singolarità dei pazienti[1].

Sul palcoscenico comunitario si sviluppa quel gioco di resistenze, scissioni, identificazioni proiettive che mettono in luce la modalità d’interazione del paziente con il contesto per ciò che esso rappresenta in relazione alla sua storia. A poco a poco emerge materiale fatto di espressioni, gesti, azioni, non necessariamente di parole, che emergendo spontaneamente dal paziente, consentendo una  miglior comprensione del suo mondo interno.

Più che con le parole è con gli atti che è possibile veicolare al paziente messaggi importanti. Come ho già ricordato, Paul Claude Racamier ha sintetizzato questo concetto con l’espressione “atti parlanti” sottolineando l’importanza dei messaggi attraverso gesti e fatti capaci di sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda del paziente per chiarire il significato di avvenimenti e consentire il recupero di modalità espressive diverse da quelle comportamentali e sintomatiche a lui abituali.

La delimitazione dei confini dello spazio, la scansione temporale, gli inevitabili sconfinamenti costituiscono sia dei limiti spaziali che temporali, diventano occasione di confronto quotidiano tra pazienti e operatori e motivo di elaborazioni delle dinamiche. In “La psicosi in contropelo[2] Marcel Sassolas avanza l’ipotesi che curare uno psicotico vuol dire costruire un contesto per lui in grado di garantirgli la possibilità di vivere con delle relazioni significative e pertanto quella evoluzione psichica che fino a quel momento è stata paralizzata dalla difesa psicotica. Il confronto quotidiano sollecita un processo di individuazione, responsabilizzazione e l’uscita dal ruolo di malato o di figlio e la rinuncia ai vantaggi secondari della malattia.

La riabilitazione e la psicoterapia nei contesti comunitari hanno una funzione complementare per la salute mentale: dove non c’è attenzione ai significati degli atti e delle parole, si può addestrare un paziente, spingerlo verso un adattamento conformistico all’ambiente, aggiungere nuovi condizionamenti psichici ai vecchi, ma non lo si aiuta a diventare più sereno, a capire la sua storia e i suoi vissuti, a instaurare e mantenere relazioni affettive e autentiche. Inoltre, la psicoterapia che lavora sulle cause della malattia, da sola è incapace dinanzi al rifiuto e alla confusione del minore psicotico, che necessità di accompagnamento, di essere sostenuto: lo psicotico spesso riesce a comunicare i suoi problemi solo agendoli.


[1] In: Ferruta, A., Foresti, G., Pedriali, E., Vigorelli, M., La comunità terapeutica. Tra mito e realtà, Milano: Cortina, pp. 90-103.

[2] Sassolas, M. (1987). Comment s’articulent dans une structure intérmediaire, dynamique institutionelle et dynamique individuelle? In : Rev Med Suisse Romande, n.107.