Rational emotive behavior therapy (REBT) [2]

Rational emotive behavior therapy

La rational emotive behavior therapy, (REBT) nasce negli anni 50′ del 900′ e rappresenta una delle prime pratiche psicoterapeutiche di impronta cosiddetta cognitiva ad affermarsi. I precedenti tentativi si caratterizzavano per le loro procedure rigorose dal punto di vista scientifico che però difficilmente erano esportabili in una vera e propria pratica clinica fuori dagli ambienti di ricerca universitari. Fu Albert Ellis il vero precursore della cognitive therapy.

Ellis fu un pioniere nel evidenziare come l’elaborazione cosciente fosse in grado di produrre degli effetti terapeutici. La psicoterapia all’epoca era dominata dal paradigma della psicoanalisi o del comportamentismo, ed entrambi concepivano la sofferenza mentale come effetto di processi mentali “inconsapevoli”[1]. In particolare, Ellis sostiene che la sofferenza psichica è l’effetto di verbalizzazioni esplicite e automatiche che il soggetto si autopropina combinate con la tendenza a focalizzarsi su ciò che si pensa nel momento in cui il malessere si acuisce. A differenza di Beck, fondatore della Cognitive Behavioral Therapy, Ellis riteneva che alla base di queste “frasi irrazionali” automatiche ci fosse un esiguo numero di credenze irrazionali che per lui rappresentavano il nucleo essenziale di ogni sofferenza psichica, cioè, non sono tanto i pensieri negativi la vera causa ma queste credenze profondamente radicate in noi. Per esempio, non sono i pensieri negativi su un possibile insuccesso che potrebbe verificarsi per un colloquio di lavoro o una prestazione in genere ad essere patologici, per il semplice motivo che potrebbero essere veri, cioè, in poche parole, la prestazione potrebbe effettivamente andare male! Il nucleo patologico per Ellis è formato da “Sarà insopportabile (non essere assunto dopo il colloquio o fallire…)”, oppure, “Sarà terribile”.

Beck, e lo vedremo meglio nel capitolo sulla CBT, in questo caso si sarebbe soffermato principalmente sull’analisi delle evidenze empiriche a sostegno o meno di quei pensieri.

La REBT rappresenta una forma di “razionalismo terapeutico” fondato sull’idea che l’essere umano sia costantemente immerso in un soliloquio interiore fatto di frasi automatiche, frasi che generano sofferenza quando esprimono la credenza fondamento di tutte le credenze: quella che potremmo definire come la radice di ogni sofferenza psichica per Ellis, cioè la pretesa che il mondo intorno a noi sia così come noi pretendiamo che sia.

Le frasi automatiche negative contengono sempre nella loro essenza questa pretesa. Ellis le chiama demands, pretese.

L’approccio terapeutico della REBT punta a far accettare ai pazienti il dolore sano (fisiologico), dovuto alla nostra condizione umana (la malattia, la povertà, le separazioni, i fallimenti, le sconfitte, gli abbandoni, la morte…) promuovendo la diminuzione della quota di dolore in eccesso (patologico) prodotto dalle credenze irrazionali alla base dei “pensieri automatici negativi”, credenze che trasformano il dolore in sofferenza patologica e che devono essere sostituite con delle credenze razionali. È un approccio che anticipa il concetto di “accettazione” di Hayes (Acceptance and Commitment Therapy (ACT)), soprattutto per quanto riguarda la credenza di insopportabilità della frustrazione derivante da un fatto negativo, che approfondiremo più avanti.


[1] Ovviamente, i processi impliciti, inconsapevoli, non hanno nulla a che vedere con quelli imputabili all’inconscio di cui parlava Freud e ancor meno quello di cui parlava Lacan.