Introduzione – Rational emotive behavior therapy (REBT) [1]

Arriano, discepolo di Epitteto, nel Manuale per il conseguimento della felicità descrisse la regola aurea della felicità e cioè che ci sono cose che dipendono da noi e altre che non dipendono da noi. Da noi dipendono il giudizio di valore, l’impulso ad agire, il desiderio e l’avversione, cioè tutti quelli che sono «fatti nostri». Da noi non dipendono il corpo, i nostri possedimenti, le opinioni che gli altri hanno di noi, le cariche pubbliche, ovvero tutti quelli che non sono propriamente «fatti nostri».

La felicità per Epitteto è vincolata alla capacità di saper identificare attraverso l’uso della ragione (proairesi) ciò che serve per raggiungere una condizione di felicità. Per poi distinguere quale scelta è la migliore (diairesi), ovvero ciò che è in nostro esclusivo potere, evitando ciò che non lo è.

La proairesi è la facoltà razionale, propria di tutti gli esseri umani, che permette loro di dare significato e distinzione alle esperienze sensibili che di per sé sono indeterminate. L’uso della ragione consente di attribuire un significato alle cose sensibili rendendole distinte le une dalle altre, cose che altrimenti apparirebbero come un tutt’uno indeterminato. Quindi, la percezione in quanto tale, non ha alcun senso, il senso glielo diamo attraverso la ragione, e glielo diamo noi.

Grazie alla proairesi è possibile la diairesi, il discernimento che precede ogni nostra scelta. Tale discernimento ci serve per poter esprimere un giudizio sulla possibilità di usare certe cose oppure di essere impossibilitati ad usarle, cioè se ce le abbiamo a disposizione oppure no. I nostri progetti, i nostri desideri, le nostre ipotesi sul mondo, possiamo solo noi dominarle, amministrarle, gestirle, sono cioè in nostro esclusivo potere ed Epitteto le ha chiamate «proairetiche».

Il nostro corpo, il lavoro, il patrimonio, il successo, il comportamento degli altri, gli eventi esterni, non sono in nostro pieno (ma parziale) potere ed Epitteo, le chiama «aproairetiche».

Per Epitteto l’infelicità si annida proprio nella pretesa che le cose che non ci appartengono debbano diventare nostre o pretendere che gli altri debbano comportarsi come noi vogliamo o che gli eventi debbano andare così come noi desideriamo, sempre, ogni volta, tutte le volte. Sono questi i casi in cui il comportamento dell’uomo si allontana dalla sua naturale razionalità (proairesi) per diventare innaturale. Ecco che in questi casi si rinuncia alla diaresi per precipitare nell’irrazionalità, nella controdiairesi che inevitabilmente conduce all’infelicità.

Il buon uso della ragione (proairesi) nel giudicare (diairesi) ciò che è fondamentale, ciò che è in nostro potere, ciò che serve veramente o che non serve affatto è ciò che può renderci felici. Il bene e il male dipendono esclusivamente da noi esseri umani, dalla nostra ragione che deve indicarci l’impossibilità di raggiungere la felicità nel possesso delle cose o in qualcosa che gli altri possono fare per noi o contro di noi o nel pretendere che le cose vadano così come noi desideriamo. Quindi l’affannosa ed infruttuosa ricerca della felicità, causata dal perseguire o evitare cose ed eventi non in nostro potere, è l’effetto del non uso della proairesi e diaresi. In alternativa chi farà un buon uso della ragione e del giudizio sarà in grado di rispettare il reale delle cose e sarà libero e non avrà bisogno di altro. Ma per mantenersi in questo stato di libertà, continuamente sottoposto ad «attacchi» provenienti anche dalla banalità della vita quotidiana, dobbiamo imparare a dire «sì» oppure «no», a dare l’assenso o il dissenso alle rappresentazioni mentali che si formano giorno dopo giorno. Dobbiamo usare con estrema attenzione la nostra ragione per far fronte alle questioni che sorgono quotidianamente nella nostra vita: il bene e il male dipendono dai nostri giudizi, quindi è inutile, per esempio, considerare la morte un bene o un male in quanto essa non dipende da noi. «Non sono i fatti in sé che turbano gli uomini, ma i giudizi che gli uomini formulano sui fatti.»

In Epitteto, come del resto in Seneca, abbiamo qualcosa che dipende da noi e qualcos’altro che non dipende da noi. Nel primo caso, cioè rispetto alla posizione che assumiamo nei confronti delle rappresentazioni mentali del mondo, è possibile la libertà, anche se è una libertà che non ha presa sulle cose, sul reale, sull’essere che non dipende da noi, ovvero su ciò che non è in nostro potere di governo. La libertà di cui si parla in questo caso concerne quella che possiamo esercitare sulle rappresentazioni delle cose, e solo su queste si fonda il nostro giudizio di bene e di male. Ovviamente tutti sanno che il bene è utile e pertanto è stupido non cercarlo. I problemi iniziano quando riflettiamo su cosa sia bene e cosa male. In tal senso Epitteto riprende il concetto aristotelico di “scelta preliminare” che rende possibile la valutazione corretta delle cose. Ma, di nuovo, il punto cardine è comprendere se quelle cose dipendono da noi oppure no. Quindi c’è una dimensione della vita in cui noi possiamo essere liberi, padroni ed un’altra in cui non possiamo, dove siamo qui schiavi. Ecco l’invito di Epitteto a non darsi troppa pena per far sì che gli avvenimenti seguano il nostro desiderio, ma desiderarli così come avvengono, affinché la nostra vita possa scorrere serena. Non possiamo obbligarci a desiderare ciò che è illogico, cioè non possiamo affannarci ad esercitare il nostro potere su un regno che non ci appartiene perché non dipende da noi. È illogico credere che le cose debbano andare proprio così come noi pensiamo che debbano andare. È accettabile auspicarselo, sarebbe piacevole che le cose andassero così come noi desideriamo, ma da qui non possiamo pretendere che le cose vadano, necessariamente, come noi desideriamo. Quindi, di nuovo, non sono i fatti in quanto tali a turbare ma i giudizi che formuliamo su di essi. Quando siamo afflitti, tristi, depressi, è colpa dei nostri giudizi, delle nostre credenze irrazionali.

La visione del razionalismo terapeutico di Ellis riprende molti aspetti dello stoicismo, in particolare il principio di Seneca: ad opinionem dolemus[1], ovvero, la nostra sofferenza è in funzione delle nostre valutazioni soggettive, fonda cioè la sua clinica non tanto sulla verifica dei fatti o sulla giusta/sbagliata percezione di essi o sulla loro corretta/scorretta interpretazione, ma sulla messa in discussione delle credenze alla base della non-accettazione dei fatti cosiddetti insopportabili, catastrofici, inaccettabili. Albert Ellis è stato il primo a sviluppare questa ipotesi in modo dettagliato riprendendo il pensiero di Epitteto espresso ne L’Enchiridion. Ciò che accade viene percepito e su ciò che percepiamo costruiamo le nostre inferenze. Il “razionalismo terapeutico” si focalizza sulle inferenze tralasciando i fatti, veri o falsi che siano, cioè, “Non sono i fatti in sé che turbano gli uomini, ma i giudizi che gli uomini formulano sui fatti”.

In antitesi a questo approccio c’è l’empirismo terapeutico fondato sull’idea che alla base della sofferenza psichica ci siano dei veri e propri errori cognitivi che falsano la nostra interpretazione della percezione degli eventi. L’empirismo terapeutico (mi riferisco alla terapia cognitivo-comportamentale di Beck), per esempio, considera come errore cognitivo l’astrazione selettiva, ovvero un filtro mentale che ci porta ad avere un’attenzione ingiustificata verso un solo dettaglio che è ovviamente, negativo. “Oggi ho preso un voto basso e ciò significa che sono uno studente fallito”. In altre parole, si arriva alle conclusioni basandosi su una piccola porzione di dati disponibili nella realtà esterna, senza considerare la situazione nella sua interezza, focalizzandosi cioè su di un singolo dettaglio negativo escludendo quegli aspetti positivi che sussistono anche quando si prende un voto basso. La percezione si concentra sul dettaglio escludendo il contesto globale dell’esperienza. Ma approfondiremo l’empirismo terapeutico in un capitolo ad hoc.

Ora, ritorniamo al razionalismo terapeutico. La possibilità di sostituire un pensiero irrazionale con un altro razionale è un’ipotesi affascinante. In effetti, riconoscere i pensieri irrazionali non significa riuscire a smettere di credere alle vecchie teorie, anche dopo aver dimostrato la loro disfunzionalità e inefficacia: devono essere sostituite con delle nuove. Questo è un principio cardine della teoria di Ellis.

Anche se riuscissimo a dimostrare con delle prove evidenti la scarsità di una certa credenza se questa non venisse sostituita con una più efficace, più razionale, non ci sarebbe mai il vero cambiamento auspicato da un terapista razionale: l’obiettivo terapeutico è quello di sostituire idee irrazionali con altre razionali. Sostituire qualcosa di sbagliato con qualcosa di corretto. Per esempio, se dopo aver subito un torto (o presunto tale) da qualcuno potremmo pensare: “Lui si deve comportare in questo modo, altrimenti è insopportabile tutto”, dovrebbe diventare: “lui non deve necessariamente comportarsi in questo modo, e se continuasse ad essere ingiusto, mi dispiacerebbe, sarei irritato, ma potrei sopportarlo e non sarebbe terribile, le cose terribili sono ben altre, potrei accettare anche tutte le conseguenze che ne seguirebbero”.

Ciò che desideriamo non deve necessariamente accadere, possiamo desiderare che una persona si comporti così come noi vogliamo, che le cose vadano così come vogliamo o che gli altri ci rispettino, apprezzino e amino così come noi vogliamo, ma non possiamo…ovvero, è assolutamente irrazionale pretenderlo! Ecco un altro punto cardine della teoria di Ellis: la tolleranza della frustrazione.

L’idea di fondo è che ci sia un modo di essere razionale e modo irrazionale. Ciò che desideriamo può non accadere e i nostri progetti possono diventare dei fallimenti. Ovviamente, nessuno ci impedisce di impegnarci al massimo per realizzarli, ma se non dovessimo riuscire, ciò vorrebbe dire che tutto è finito? Che non riusciremo a sopportarlo? Che è terribile? Che sia opportuno pretendere che debba essere così come noi desideriamo che sia?

Ma come può tutto questo sapere, questa “giustezza” aiutare i pazienti a stare meglio?

Attraverso una vera e propria disputa logico-filosofica sulle credenze irrazionali alla base delle frasi-pensieri automatiche che generano i sintomi. Ovviamente, rinunciare alla pretesa non vuol dire rinunciare al desiderio o rassegnarsi al fallimento o al fato, o autorizzarsi ad arrendersi. La questione diventa: è vantaggioso o meno continuare a torturarsi quando il mondo, le persone, io, quando tutto questo non va così come dovrebbe, in base a ciò che desidero? Certo che non è vantaggioso, ma il sapere che non è vantaggioso come può aiutarmi? Il naturale senso di fastidio o tristezza diventa comunque disfunzionale, in alcuni momenti dannoso, stiamo male lo stesso.

Allora, altro principio centrale nella prospettiva razionalista: è necessario allenarsi per pensare in modo razionale, per sostituire le nostre pretese. È utile allenarsi a sostituire la frase-pensiero: “Io pretendo che lui si comporti bene con me” con “sarebbe bello per me che lui si comportasse bene con me”, oppure “potrei aiutarlo a migliorare, ad essere più razionale, pianificando una strategia utile”, “posso riuscire a sopportarlo, lui si comporta male con me ma questo non vuol dire che vale niente, non è una catastrofe continuare ad averci a che fare o il mondo non fa schifo per questo”. E così via, il paziente dovrebbe sostituire tutte le pretese irrazionali con dei pensieri razionali e giusti del tipo: “mi piacerebbe tanto che lui fosse una persona razionale ed equilibrata, ma se lui non lo è o non lo diventerà mai, questo non vuol dire che lui non vale niente, potrei accettarlo come persona, come soggetto”, oppure “lui non deve essere per forza una persona razionale ed equilibrata, anche se lo desidero tanto. Mi impegnerò per aiutarlo a diventare una persona migliore e meno disturbata, ma se non dovesse accadere, riuscirei comunque ad andare avanti, anche se lui continuerà ad essere per sempre una persona irrazionale e disturbata, non è da disprezzare e potrei accettarla come persona, sarebbe brutto, irritante, fastidioso, ma non terribile o catastrofico”.

Ecco che, una volta intercettato il pensiero irrazionale che causa le emozioni e i comportamenti disfunzionali (a partire da una certa o cert’altra situazione), il lavoro terapeutico sarebbe quello di imbastire una vera e propria disputa volta a valutare i fondamenti e i vantaggi/svantaggi di queste credenze irrazionali promuovendo credenze razionali ovvero preferenze flessibili, tolleranza della frustrazione, accettazione di se stessi, del mondo e degli altri e, obiettivo finale, sostituire le emozioni disfunzionali come ansia, rabbia disfunzionale, depressione, angoscia con, paura, rabbia, tristezza, dispiacere.

Il lavoro terapeutico, secondo questa prospettiva, è possibile se si riesce a far luce sulla connessione esistente tra credenze irrazionali e emozioni negative, sostenendo il paziente che si ostina a credere nella connessione situazione-emozione negativa nel difficile lavoro di accettazione, piuttosto, della connessione affezione-(esageratamente)negativa e credenza-irrazionale, cioè, se diciamo che: “affezione (esageratamente) negativa (sintomo)” = p e “credenza irrazionale” = q, l’ipotesi del razionalismo terapeutico è che non si dà il caso che p sia vero e q sia falso, se abbiamo una affezione (esageratamente) negativa abbiamo una credenza irrazionale, che potremmo scrivere così p → q, q → p ├ p ↔ q.

1) p ↔ q, p ├ q: se c’è un sintomo (nel senso di sofferenza psichica, affezione patologica, esageratamente negativa) allora c’è una credenza irrazionale, c’è un sintomo; quindi, c’è una credenza irrazionale

2) p ↔ q, ¬q ├ ¬p: se c’è un sintomo (nel senso di affezione patologica, esageratamente negativa) allora c’è una credenza irrazionale, non c’è un sintomo, allora non c’è una credenza irrazionale

In sintesi, l’ipotesi di fondo è: p ↔ q = (p→q) ∧ (q→ p). Ovvero, il sintomo e le credenze irrazionali sono strettamente interconnessi tra di loro, non si dà l’uno senza l’altro.

La credenza irrazionale da scardinare nel lavoro terapeutico sarebbe quella che suppone che sia la “situazione” a causare l’“affezione negativa” invece che le “credenze irrazionali”. Cioè, se diciamo che “una certa situazione” = A e “affezione negativa” = C, il paziente quasi sempre crede che ∀x(Cx ↔ Ax): “tutte le volte che sbaglio a lavoro mi sento malissimo”.

Uno dei primi passi nel processo terapeutico in questo caso, dato che “credenze irrazionali” = B, sarebbe quello di portare il paziente verso l’acquisizione di questo punto essenziale per il processo terapeutico, e cioè: ∀x(Cx ↔ Bx), ovvero: “sono le mie credenze irrazionali (espresse dai miei pensieri automatici negativi, di cui le credenze irrazionali sono le matrici) a generare questo mio malessere”.

Seguendo questa strada del razionalismo terapeutico, la fonte principale della sofferenza psichica sarebbe la credenza assoluta e inscalfibile che il mondo debba andare in un certo qual modo e non in un altro, così come abbiamo visto sopra. Cioè, l’essere umano pretende che il modo vada così e che non vada in quest’altro modo. Aspettative assolute, spesso scollegate dalla realtà condivisa. Condizioni di necessità che strutturano l’apriori di ogni nostra interpretazione del mondo.

Secondo questa prospettiva, i nostri desideri non sono né buoni, né cattivi. I nostri desideri sono in nostri desideri. Ogni azione terapeutica o autoterapeutica non può e non deve inibire i desideri individuali. Non sono essi a costituire il fondamento ultimo e vero della nostra sofferenza. Il fondamento ultimo, secondo questa prospettiva: è il pretendere che i nostri desideri siano soddisfatti, è il pretendere che i nostri desideri diventino realtà.

Ci costruiamo una mappatura interpretativa della realtà, schemi e tutte le volte che ricorre una discrepanza tra la nostra mappatura e quello che possiamo osservare nella realtà allora accade una certa o tal altra reazione somatica, il nostro tono affettivo cambia in negativo, le nostre sensazioni corporee ci travolgono.

La discrepanza tra aspettative e realtà rappresenta il grilletto che può attivare i nostri processi somatici che denominiamo usualmente con parole del tipo “benessere”, “malessere” e che descrivono la discrepanza tra le nostre aspettative e la realtà. Tale discrepanza viene riempita dalle frasi-pensieri-reazioni-affettive, enunciati.

Il razionalismo terapeutico queste “sciocche frasi” affinché possano essere sostituiti con nuovi enunciati più adatti ad afferrare la complessità del mondo. La modificazione degli schemi ci viene imposta dalle affezioni, dalla variazione dei toni affettivi. È questo il processo che Piaget chiamava accomodamento. Al suo opposto abbiamo l’assimilazione ovvero quel processo che invece di modificare lo schema per adattarlo alla realtà tralascia tutte quelle informazioni provenienti da questa ultima che sono dissonanti: cioè continuiamo ad insistere con le nostre aspettative sul mondo anche se queste sono ogni volta contraddette dalle cose che accadono.

Quando ci ostiniamo a pretendere che i fatti del mondo debbano accadere così come noi desideriamo allora processiamo le informazioni assimilandole in modo tale fa farle combaciare con i nostri schemi e finendo per tralasciare tutte quelle informazioni che invece le disconfermano. Cioè, tutte le volte che pretendiamo che le cose debbano andare “così” come desideriamo, tutte le volte che pretendiamo che qualcuno si comporti “così” come noi desideriamo e ciò non accade, allora le nostre reazioni neurovegetative ci daranno dei segnali di squilibrio che indicano che dobbiamo fare qualcosa, agire o cambiare.

C’è da aggiungere che questa prospettiva terapeutica non ci dice che accettare la realtà di ciò che accade significhi arrendersi, rassegnarsi ad essa. No. Significa semplicemente non stabilire un rapporto patologico con il mondo, cioè, significa non riempire la discrepanza che sussiste tra le nostre credenze e i fatti del mondo con una negazione di alcuni aspetti di questo per far combaciare il mondo alle nostre credenze. Non ci dice di arrendersi agli aspetti negativi della realtà che ci circonda, agli aspetti fastidiosi o dolorosi della realtà intorno a noi o di arrendersi passivamente alle forze che contrastano i nostri desideri.

Ciò che propone è un percorso che ha come obiettivo quello di riconoscere la realtà per quella che è. Quindi accettare la realtà per quella che è non vuol dire accettarla passivamente e con rassegnazione, significa riconoscerla per quella che è e, se si desidera qualcosa di diverso è necessario partire dal riconoscerla per quella che è, senza adattarla alle nostre credenze e perpetuare le nostre reazioni affettivo-emozionali negative, reazioni che, come dicevo prima, ci segnalano proprio la discrepanza tra i nostri schemi e la realtà.

Un altro aspetto evidenziato dall’approccio razionalista e quello concernente la tendenza di alcuni soggetti a monitoriamo costantemente il proprio livello di disagio. Abbiamo delle credenze irrazionali anche sulla nostra capacità di supportare le situazioni di stress, abbiamo degli schemi anche sulle nostre capacità di affrontare le difficoltà, gli eventi contrari, le avversità, le sofferenze che la vita ci può dare: “non ce la farò mai, non riuscirò mai a sopportarle e questo è e sarà terribile”. Che potremmo formalizzare così: dati: situazione = Z, sopportare = S, terribile = T, ∃x(Zx ∧ ¬◇Sx ∧ Tx), cioè “c’è almeno una situazione tale che essa è impossibile da sopportare ed è terribile”.

Ci sono sensazioni corporee che fungono da grilletto per l’apparizione intrusiva delle frasi-pensiero, quando queste sensazioni sono negative, fastidiose, le nostre credenze sulla incapacità di sopportarle può favorire pensieri estremamente negativi. Spesso queste sensazioni corporee diventano il nemico da evitare anche se nell’ambiente circostante non ci sono segnali negativi, minacce, pericoli o eventi particolarmente preoccupanti. Ci tormentiamo per l’apparizione di queste sensazioni corporee come se fossero esse stesse dei segnali di un pericolo incombente.

Ovviamente un forte trauma, un lutto, una malattia mortale o altre condizioni di estremo disagio, richiedono un livello di sopportazione maggiore, ma la maggior parte delle volte, la nostra intolleranza alle cattive sensazioni è una credenza del tipo “non sono in grado di supportare queste cattive sensazione” anche se spesso non ci abbiamo neanche provato, perché le evitiamo, perché esse rappresentano per noi esperienze negative come qualunque altro stimolo proveniente dall’ambiente esterno e non dal nostro corpo e, spesso, mettiamo in atto comportamenti dannosi per evitarle (alcol, eccessiva attività fisica, droghe…), comportamenti che possono rapidamente interrompere il flusso di sensazioni negative nell’immediato ma che lasciano inalterate le credenze che sostanzialmente rappresentano il “saperci (non)-fare disfunzionale”, ovvero quell’insieme di processi che automaticamente ci inducono a soffermarci su queste sensazioni, che ci inducono ad indugiare su di esse, come se perpetuarle aumentasse le chance di debellarle!

L’intolleranza per le cattive sensazioni, seguendo questa linea di ragionamento, sarebbe l’effetto della credenza secondo la quale non siamo in grado di tollerare, di sopportare quelle sensazioni negative, l’intolleranza per le situazioni sfavorevoli, stressanti, disagiate in genere poggia sulla credenza secondo la quale: “noi dobbiamo avere una vita comoda e priva di scomodità”, ovvero, dati “avere una vita comoda” = C, “scomodità” = S: ¬◇¬(C∧¬S).

L’intolleranza per gli insuccessi invece poggia sulla credenza che non si possa tollerare il senso di frustrazione derivante dalla mancata realizzazione dei propri scopi, ovvero, dati “tollerare” = T, “frustrazione” = F, “realizzazione dei propri scopi” = R: ∀x(¬Rx→F) → ¬T, che potremmo scrivere anche così, ∀x(¬Rx→F) → ¬◇T. Un altro principio fondamentale dell’approccio terapeutico razionalista è quello che ritiene evidente il fatto che noi tendiamo a valutare le persone globalmente senza tenere presente i loro singoli comportamenti. Giudichiamo le persone nella loro interezza e non per le azioni che compiono. Quindi, le persone o sono buone o non lo sono, ovvero, dati P = persona, B = buono, ∀x[Px→(Bx | ¬Bx)]. Ma è evidente che non esistono persone buone o persone cattive. Esistono persone che alcune volte si comportano bene ed altre volte male. Questo vale per gli altri ma vale anche per noi. Se durante una giornata di lavoro commettiamo un errore possiamo dire che “ho fatto un errore, in questa occasione ho fallito” ma certo sarebbe irrazionale dire “sono una persona sbagliata, sono un fallito”. Possiamo giudicare le nostre azioni e quelle degli altri ma non noi stessi o gli altri. Possiamo avversare gli errori commessi ma non chi li ha commessi. Noi stessi e gli altri dovrebbero essere accettati incondizionatamente.


[1] L. A. Seneca, Lettere morali a Lucilio, Milano, Mondadori, 2015, 89, 13.