La cura nelle istituzioni

Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un progressivo inserimento, via via sempre più crescente, di psicoanalisti, psicoterapeuti e educatori, di formazione analitica, con funzioni anche di responsabilità, in Servizi deputati all’accoglimento e alla cura di minori psicotici; dagli anni ’70- ’80 in Italia si è realizzato un sistematico approfondimento della psicoterapia di gruppo[1] e una riflessione sulle dinamiche primitive del campo istituzionale[2], mentre un’attività di ricerca, in tal senso è stata sostenuta in diverse scuole universitarie (Genova, Bologna, Firenze, Roma, Palermo) e in particolare, da quella di De Martis e Petrella a Pavia[3].

All’interno di questa molteplicità, Marta Vigorelli, individua alcuni importanti modelli d’organizzazione psicoterapeutica ancora attuali, che in qualche misura rispecchiano quella dialettica individuo/gruppo, setting individuale/setting-allargato, che ha caratterizzato, sin dall’inizio, il rapporto della psicoanalisi con le istituzioni private e pubbliche, in particolare: il modello bifocale, che privilegia la relazione duale con alcune modificazioni tecniche rispetto al setting classico, adattato specificatamente per la psicosi, in un contesto istituzionale che può essere definito altamente protetto; il modello del piccolo gruppo integrato, fondato su un intervento individualizzato con più figure professionali che operano in modo coordinato per rispondere ai differenti bisogni del paziente (psicoterapeutico, farmacologico, di accudimento); il modello comunitario, che propone la presa in carico di un gruppo di pazienti da parte di un gruppo di curanti con il coinvolgimento della famiglia, nel contesto di un ambiente psicoterapeutico quotidiano; il modello di rete, che comprende al suo interno i primi tre modelli, nella cornice di una serie di strutture coordinate, appartenenti alla stessa area territoriale, in cui il paziente può sviluppare un percorso evolutivo, secondo i diversi momenti del decorso della malattia e della cura (fase acuta, subacuta, cronica) e potersi inserire nel contesto sociale esterno, utilizzando le risorse locali[4].

La differenza fondamentale tra il primo modello e quelli successivi, la rintracciamo nello spostamento d’importanza che viene dato al setting, che nel modello bifocale è inteso come una realtà a cui il paziente si deve in qualche misura adeguare, negli altri invece abbiamo la concezione di un ambiente facilitante (piccolo gruppo, comunità, rete di strutture) che eticamente sceglie di adattarsi e articolarsi in modo duttile ai diversi bisogni del paziente, oltre che fornire naturalmente anche un setting ben regolato avente come obiettivo principale quello di contenere l’angoscia di frammentazione del minore psicotico.[5]

Questo cambiamento sembra in linea con la convinzione sempre più diffusa che valuta il trattamento psicoanalitico e la psicoterapia d’orientamento psicoanalitico insufficiente a produrre, da sola, un’evoluzione significativa nel minore psicotico. Se tali metodologie cliniche invece vengono inserite in un continuum di interventi che prevedono spazi di esperienza quotidiana condivisa in cui l’obiettivo non è solo quello di contenere il mondo fantasmatico primitivo e caotico o riacquisire funzioni affettivo-cognitive perdute, ma anche vivere emozioni nuove che possano almeno in parte sostenere le aree sane che convivono in una struttura psicotica (strutture spazio-temporali, corporee, coesive e stabilizzanti del senso di Sé), allora l’intervento sembra rivelarsi molto più efficace.


[1] Corrao, F. (1982). Psicoanalisi e ricerca di gruppo. In: Gruppo e funzione analitica, 3 (3), 23-27. Neri, C. (1993). Campo e fantasie trans-generazionali. Rivista di Psicoanalisi, XXXIX, 1. Neri, C. (1995). Gruppo. Roma: Borla.

[2] Correale, A. (1991). Il campo istituzionale. Roma: Borla.

[3] De Martis, D., Ambrosi, & P, Putrella, F. (1987). Fare e pensare in psichiatria. Relazione e istituzione. Milano: La Feltrinelli.

[4] Marta Vigorelli, Il lavoro della cura nelle istituzioni. Progetti, gruppi e contesti nell’intervento psicologico, 2005, Franco Angeli, p. 101-110

[5] Ibidem