Ignoranza/meraviglia/curiosità: “fare sé regola dell’universo”

La nominazione fantastica costituisce il nettare che l’uomo usa per dissetare la sete inarrestabile di conoscenza. Vico parla di “meraviglia” che nasce dall’”ignoranza”, e che è capace di generare una nuova metafisica, lontana da quella astratta e ragionata degli addottrinati e più vicina alla reale essenza delle cose: la sapienza poetica. I nomi poetici e le << favole >> che nascono intorno ad essi, ebbero origine, ed hanno origine << da ignoranza di cagioni, la quale fu loro madre di meraviglia di tutte le cose, che quelli, ignoranti di tutte le cose, fortemente ammiravano >>[1]. L’uomo “reagisce” all’ignoto proprio attraverso una “regola” che egli stesso si dà. Una “regola” però, che non viene sancita da una sola voce che dispoticamente la impone a sé e agli altri, come accade in alcune acrobatiche esibizioni dei convinti descrittivisti, di chi ancora crede che ad un nome corrisponda una chiara e inattaccabile “classifica” di proprietà. No, la “regola” di cui parla il filosofo napoletano consiste proprio in quel chiamare le cose con il “proprio nome” (come se fossero tutti “nomi propri”, cioè espressioni che non danno alcuna informazione sul nominato), che solo la parola poetica è in grado di realizzare. L’ignoranza madre della meraviglia e della curiosità, genera essa stessa una “regola” (fantastica), un “significato (fantastico)”: “Gli uomini ignoranti delle naturali cagioni che producon le cose, ove non le possono spiegare nemmeno per cose simili, essi dànno alle cose la loro propria natura, come il volgo, per esemplo, dice la calamita esser innamorata del ferro”[2].

I limiti del loro mondo rappresentano anche i limiti del loro linguaggio, e naturalmente viceversa. L’ignoto che vive oltre questi limiti può essere solo evocato. Anche questa evocazione trova la sua realizzazione nella “pratica nominante” della mitopoiesi vichiana. La “regola” stessa risulta necessaria per rendere “giocabile” la vita, ma chi persevera ancora nel sostenere che un significato (o regola) ci venga dato, non si accorge ancora che quella concezione della regola nasce esclusivamente da una sua personale opinione, e cioè appartiene al “linguaggio privato”: Wittgenstein potrebbe chiarirci le idee: “il nostro paradosso era questo: una regola non può determinare alcun modo di agire, poiché qualsiasi modo di agire può essere messo d’accordo con la regola. […] “Seguire la regola” è una prassi. E credere di seguire la regola non è seguire la regola. E perciò non si può seguire una regola privatatim: altrimenti credere di seguire la regola sarebbe la stessa cosa che seguire la regola”[3].

La “nuova filosofia” wittgensteiniana, diventa “antitodo” al vecchio lessico della filosofia, un “vaccino” contro la filosofia stessa, contro ogni tentazione metafisica. L’eccezione alla regola, a mio avviso, è e rimane la nuova metafisica vichiana, quella poetica: “il vero poetico è un vero metafisico, a petto del quale il vero fisico che non vi si conferma, dee tenersi a luogo di falso”[4].

Tale verità fa sì che il cielo tuonante diventi la sacra divinità greca, il sacro nome greco, Giove, il quale rende com-prensibile l’ignoto, afferrabile l’assurdo, credibile l’impossibile: “tal generazioni della poesia ci è finalmente conformata da questa sua eterna propietà: che la di lei propia materia è l’impossibile credibile, quanto egli è impossibile ch’i corpi siano menti ( e fu creduto che ‘l cielo tonante si fusse Giove”.[5]


[1] SN, 375 e cfr. 194.

[2] S.N., 180.

[3]L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., p. 113, n.216, corsivo mio.

[4]S.N., 205.

[5] S.N., 383.