Vico e Wittgenstein: l’oggetto semplice (parte 3)

Nel post di ieri ho riportato tutte quelle folte citazioni, per cercare di dare il giusto trampolino teoretico, a quella  che sarà in seguito la tesi essenziale del Vico maturo, la nominazione fantastica, e per cercare di mostrare come questa sia supportata da una piattaforma di “tentativi” speculativi, o meglio ancora di interrogativi filosofici, sui fondamenti della conoscenza umana. Questi “tentativi” costituiranno l’incamminamento verso quella terapia , che dovrà ricondurre le parole, dal loro uso metafisico a quello quotidiano. Terapia questa, che certamente non può definirsi indolore; essa conduce alla scoperta di quei non-sensi che generano quei fastidiosi, ma necessari  “bernoccoli intellettuali”, che ogni buon filosofo si procura cozzando con la testa contro i limiti del linguaggio.

Ed ecco che la filosofia stessa potrebbe guarire (da) se stessa, se solo accettasse di ricondurre le parole al loro uso quotidiano. Senza voler far loro “affermare troppo”: [La] luminosità del vero metafisico è pari, esattamente a quella della luce, che non riusciamo a distinguere se non per difetto di corpi opachi[1]

La “luminosa sofferenza” generata dai “bernoccoli intellettuali”, dall’impossibilità di poter realizzare la conoscenza infinita attraverso le “definizioni”, spingerà il Nostro verso l’invenzione, di una nuova scienza, una nuova filosofia, che prenderà l’avvio proprio dal superamento della concezione “descrittivista” del nome. Allontanandosi dalla concezione del nome come sintesi di una serie definizioni ( o meglio di una raccolta di descrizioni) , egli ne riformulerà una nuova, dove il nome trova la sua origine nella finzione fantastica, finzione che attraversa tutto e tutti. Il nome non rappresenta o raffigura qualcosa che già esiste di per sé: l’oggetto acquisisce senso (esiste), inizia ad appartenere all’ordine delle cose umane, se e solo se viene investito di quella forza evocativa che solo la nominazione fantastica produce. Dare un nome è dare un senso . L’oggetto esiste esclusivamente perché viene nominato, solo perché l’uomo lo chiama, gli un nome: “Il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso e passione, ed è proprietà de’ fanciulli di prender cose inanimate tra le mani e, trastullandosi, favellarvi come se fussero, quelle, persone vive”[2].

Anche Wittgenstein rinascerà, e lo farà con una nuova filosofia, quella delle Ricerche filosofiche. Qui il problema dell’oggetto semplice cambierà pelle, cangerà in qualcosa che problema (da risolvere) non è più e che potrà avere senso (e quindi divenire risolvibile) solo se le regole del gioco lo permetteranno: “Chiedere : “quest’oggetto è composto?” fuori di un determinato gioco linguistico, è simile a ciò che fece una volta un ragazzo, il quale, dovendo indicare se i verbi di certe proposizioni fossero usati nella forma attiva o nella forma passiva, si rompeva il capo per stabilire se il verbo “dormire” significasse qualcosa di attivo o di passivo. La parola “composto” (e dunque anche la parola “semplice”) è da noi impiegata in una quantità innumerevole di modi differenti, imparentati fra loro in diverse maniere. […] La risposta corretta alla domanda filosofica: “L’immagine visiva di quest’albero è composta? E quali sono le sue parti costitutive ?”, è : “Dipende da ciò che tu intendi per ‘composto’. ( E questa, naturalmente, non è una risposta, ma un rifiuto della domanda)”[3].


[1] Ivi, p. 276.

[2] S.N., 186.

[3] L Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1967, p. 53, n.79.