Breve digressione sul nome proprio

Fu J.S. Mill, il primo a mettere chiaramente in evidenza la non “descrittività” dei nomi propri. Egli afferma che i nomi propri non sono connotativi, cioè non hanno un “senso” proprio (mentre possono avere “significato”, cioè denotare), mentre i nomi di concetti generali sono connotativi e oltre a denotare qualcosa o qualcuno possiedono anche certi attributi: “Per esempio la parola uomo denota Pietro, Giovanna, Giovanni ed un numero indefinito di altri individui,  di cui essa è il nome, in quanto presi come classe. Ma essa viene loro attribuita perché possiedono certi attributi, e per significare che li possiedono”[1].

Il nome concreto generale è connotativo in quanto esso dà una serie di informazioni; esso con-nota, designa un insieme multiforme di proprietà. Sono queste determinate proprietà che garantiscono l’attribuzione del “nome comune” uomo a Pietro, Giacomo ecc. . Mill fa luce sulla differenza fondamentale che sussiste tra “denotare” e “connotare”: ogni qual volta un nome si porta “dentro la pancia” qualche informazione, oltre ad avere “significato” è anche “sensato”: “Si dice pertanto che quel nome significa i soggetti direttamente, gli attributi indirettamente; esso denota i soggetti ed implica, o involge o indica o, come diremo d’ora innanzi connota gli attributi, è un nome connotativo [2].

Gli unici nomi ad essere invece solo denotativi (cioè non anche connotativi) sono, per Mill, i nomi propri. Essi non hanno un ‘senso’, “essi denotano gli individui che sono da loro designati, ma non indicano o implicano alcun attributo come pertinente a quegli individui”[3].

Il nome proprio è un segno senza senso, e se le caratteristiche dell’oggetto che esso designa mutano, esso non segue queste mutazioni.

Una città può aver ricevuto il suo nome, Dartmouth, perché situata vicino alla foce (mouth) del fiume Dart. Immaginiamo che la foce scompaia, che venga insabbiata: smetterebbe allora quella città di chiamarsi Dartmouth? Certo che no! Il suo nome continuerebbe ad essere lo stesso.[4] I nomi propri denotano gli oggetti direttamente, senza che la loro denotazione dipenda da qualche attributo o proprietà. A questa tesi – come ricorda Saul Kripke[5] – si oppongono Frege e Russel, che insieme a Searle, potrebbero configurare i primi assertori –naturalmente con le dovute precisazioni[6] –  della concezione descrittivista del nome (in primo luogo per quello proprio, e in secondo luogo anche per quello comune).

Quando Frege affronta la questione dei “termini singolari” è abbastanza evidente, anche se non lo afferma mai esplicitamente, che il nome proprio, per lui, è nient’altro che l’”abbreviazione di una descrizione definita”. Il nome proprio è nome, solo in quanto esso abbrevia una descrizione. Com’è noto, Frege distingue marcatamente il “senso” dalla rappresentazione, in quanto la prima è una nozione logica e la seconda psicologica: distinzione questa che deve servire a non minare la condivisibilità obiettiva e intersoggettiva della conoscenza. Infatti, gran parte degli errori sono causati proprio dalla non fissazione (una volta per tutte!) del senso dei nomi. Come osserva Casalegno “[Per Frege] un nome proprio è in realtà l’abbreviazione di una descrizione definita e il senso del nome è quello della descrizione che esso abbrevia” [7].

Il senso di “Aristotele”  per esempio potrebbe essere: “Lo scolaro di Platone, maestro di Alessandro Magno”. La cosa più interessante è che, secondo Frege, un nome che non ha un senso, non ha neanche un referente (Bedeutung), e cioè che “a un nome N non corrisponde senso alcuno, non c’è nulla che determini di quale oggetto N è nome, e quindi N non è nome di nulla, non è, in realtà, un nome”[8]. Frege prospetta quella che per lui sembra essere l’unica soluzione alla promiscuità delle lingue naturali e cioè la strutturazione di un linguaggio logicamente perfetto, nel quale il senso dei termini venga fissato “definitivamente”. Associando ad N un senso che espliciti le proprietà che individuano l’oggetto che quel nome denota, e facendo ciò per tutti i nomi, si eviterebbero tutte le confusioni che caratterizzano la imprevedibilità dei linguaggi naturali.

Oltre che Frege, anche Russel concepisce il nome come abbreviazione di una descrizione definita, e mentre Frege non lo affermerà mai esplicitamente, Russel sarà molto più limpido nell’esporre questa tesi : “I nomi che usiamo comunemente, come ‘Socrate’, sono in realtà abbreviazioni di descrizioni . […] Quando usiamo la parola ‘Socrate’, in realtà stiamo usando una descrizione. Il nostro pensiero può essere reso con una frase come ‘il Maestro di Platone’,o ‘il filosofo che bevve la cicuta’, o ‘la persona di cui i logici asseriscono che è mortale”.[9]

È necessario, adesso, spendere, qualche parola anche sulla cosiddetta “teoria dei  concetti agglomerati”, formulata da Wittgenstein, e articolata e difesa in seguito da J. Searle. Questa teoria considera ogni possibile modo di identificare il referente come rilevante, ma al tempo stesso, non decisivo per l’individuazione del referente di un nome. Questa tesi, a differenza di quella descrittivista, aumenta il numero delle descrizioni che dovrebbero “dare il significato” al nome. Essa la troviamo enunciata in una delle più celebri pagine delle Ricerche filosofiche: “Quando faccio un enunciato intorno a Mosè, sono sempre disposto a sostituire Mosè con una qualsiasi di queste descrizioni? Potrei dire: Per ‘Mosè’ intendo l’uomo che ha fatto ciò che la Bibba racconta di Mosè o, almeno, ne ha fatto una buona parte. Ma quanto? Il nome ‘Mosè’ ha dunque, per me, un uso fisso inequivocabilmente determinato in tutti i casi possibili? Non accade piuttosto che io abbia, per così dire, tutta una serie di puntelli a mia disposizione e sia pronto ad appoggiarmi a uno quando mi viene sottratto l’altro, e viceversa?”[10]

Qualunque modo si scelga per descrivere il referente di un nome proprio, esso non sarà mai del tutto sufficiente a garantire una chiara individuazione del suo significato. Ma con ciò Searle non sostiene che siamo costretti a concludere che il nome non possa avere un referente. Posto che esista qualcuno che soddisfi la maggior parte delle descrizioni, possiamo utilizzare quel nome per denotare quell’individuo. Ed anche se ci sono delle descrizioni, che associate a  quel nome non adempiono al loro scopo, cioè non danno informazioni su quell’oggetto, non per questo dobbiamo smettere di utilizzare quel nome in quanto designatore di quell’individuo: “Supponiamo di chiedere agli utenti del nome ‘Aristotele’ di specificare quelli che essi considerano fatti essenziali e assoluti relativi ad Aristotele. La loro risposta sarebbe un insieme di asserzioni descrittive univocamente referenziali. Ora, la mia tesi – dice Searle –  è che la forza descrittiva di ‘Questo è Aristotele’ consiste nell’asserire che un numero sufficiente ma finora non specificato di tali asserzioni sono vere di questo oggetto. Pertanto, gli usi referenziali di ‘Aristotele’ presuppongono l’esistenza di un oggetto relativamente al quale è vero un numero sufficiente ma finora non specificato di queste asserzioni […]. Il problema di sapere quali siano i criteri per “Aristotele” viene di solito lasciato aperto, e in realtà si pone raramente, e quando si pone siamo noi, gli utenti del nome, che decidiamo più o meno arbitrariamente quali debbano essere questi criteri”[11].

Searle argomenta la confutazione della tesi descrittivista, proprio evidenziando il fatto che, se io dicessi che il nome proprio è il sinonimo di una e una sola descrizione definita, da questa sinonimia nascerebbe una vera e propria proposizione tautologica. Per esempio, se io dicessi:

(a)  “Aristotele, se è esistito, è stato discepolo di Platone”

sarebbe lo stesso che dire:

(b)  “Il discepolo di Platone, se esistito, è stato discepolo di Platone”

E noi sappiamo che gli enunciati analitici oltre che essere universali esprimono anche una verità necessaria. Ma risulta davvero paradossale, afferma Searle, sostenere che sia stato necessario il fatto che Aristotele abbia ricevuto insegnamenti da Platone; egli sostiene che, invece, avrebbe anche potuto non averli, e cioè, il fatto che Aristotele sia stato discepolo di Platone è un fatto prettamente contingente.

Ma il vero salto di distanziamento definitivo dalla teoria descrittivista, lo fa S. Kripke, il quale sosterrà che questa teoria di Searle, la quale pure si differenzia certamente da quella di Frege e Russel, in realtà ne cova ancora lo spirito[12]. Ma proviamo ad andare con ordine. La concezione fondamentale di Kripke, a proposito del “nome proprio”, può essere riassunta così: mentre le descrizioni si riferiscono ad individui diversi in situazioni diverse (mondi possibili), i nomi designano (denotano) lo stesso individuo in tutte le situazioni possibili (o, “stati possibili” o “storie del mondo” o “situazioni controfattuali”). Il nome “Aristotele” denota l’individuo Aristotele in tutte le situazioni controfattuali, ma non in tutte, Aristotele sarà discepolo di Platone. Kripke definisce designatore rigido, quelle espressioni che denotano lo stesso individuo in tutti i mondi possibili: “chiameremo qualcosa un designatore rigido se in ogni mondo possibile esso designa lo stesso oggetto, e designatore non rigido o accidentale se non è così” [13]. Quindi Kripke confuta sia la tesi “descrittivista” che quella dei “concetti agglomerati”. Allontanandosi dalla concezione del nome, sia come abbreviazione di “una” descrizione che di “più” descrizioni, Kripke frantuma uno dei cardini della logica tradizionale. Egli avanza una tesi che prima facie può apparire abbastanza bizzarra, ma che “intuitivamente”, come spesso lui ama dire, si mostra sicuramente efficace. Egli considera le descrizioni che dovrebbero significare il referente di un nome, come capaci solo di “fissare il riferimento” ma non in grado di “dare un significato”. Quindi anche se la tesi portante di Naming and necessity è quella di salvaguardare la necessità affermata dall’identità del nome con il nominato, egli non “butta via”, per dir così, le “descrizioni”, le quali però, serviranno esclusivamente a fissare un riferimento. Il che potrebbe valere come quella finzione fantastica che, nella prospettiva vichiana[14], faceva risiedere nella nominazione appunto il momento della costituzione del senso: saremo sempre e solamente noi ad inventarci il senso di un nome, e come osserva A. Martone: “alle origini della proposta kripkiana, sta proprio l’idea che la tesi del Nome quale ‘designatore rigido’ sia un fatto intuitivo dei parlanti in un dato linguaggio, una sorta di conoscenza irriflessa la cui riflessione, nei contesti specialistici a ciò deputati, ha spesso finito per opacizzare o confondere quel dato intuitivo”[15]

Anche qui, come abbiamo già visto a proposito dell’”universale ragionato”, il nome non dà informazione sull’oggetto a cui dovrebbe riferirsi, ma esso denota direttamente (tutto d’un colpo), l’oggetto a cui esso si riferisce: in tutti i mondi possibili. Il senso che viene associato al nome non può essere dato una volta per tutte, come voleva Frege. Esso nasce da quella che Kripke chiamò “catena causale del riferimento”: “Nasce qualcuno, un bambino; i suoi genitori lo chiamano con un certo nome. Ne parlano ai loro amici. Altre persone lo incontrano. Attraverso discorsi di vario tipo, il nome si diffonde come in una catena, di anello in anello. Un parlante che si trova a un’estremità di questa catena, e che ha sentito parlare, ad esempio, di Richard Feynman al mercato o altrove, potrà riferirsi a Richard Feynman anche se non si ricorda da chi egli per la prima volta ha sentito parlare di Feynman o da chi ne ha mai sentito parlare. Egli sa che Feynman era un fisico famoso. Un certo flusso di comunicazione, che alla fine si estende sino a quella persona raggiunge in effetti il parlante, che potrà riferirsi a Feynman anche se non sa identificarlo in maniera univoca. Egli non sa cosa sia un diagramma di Feynman, non sa che cosa sia la teoria di Feynman della produzione e dell’anichilimento dicoppie. […]. Non c’è bisogno però che egli sappiatutto ciò; è stata invece stabilita una catena di comunicazione che risale a Feynman stesso, in virtù della sua appartenenza a una comunità che ne ha trasmesso il nome da un anello all’altro e non mediante una cerimonia che il parlante esegue privatamente nel suo studio, del tipo: “Con ‘ Feynman’ intenderò colui che ha fatto questo e quest’altro.” [16] .

Quindi le descrizioni “il fisico così e così…” non sono in grado di dare il senso del nome di “Richard Feyman, in quanto esse non sono vere in tutti i mondi possibili: esse sono contingenti.

Il battesimo a cui si riferisce Kripke, invece, fissa il riferimento che non muterà mai più, e che resterà sempre lo stesso, qualunque cosa accada. Qui, oltre che un battesimo, si celebra anche un “matrimonio” che sancisce l’unione indissolubile tra il nome e l’individuo a cui esso si riferisce.

Dietro la concezione del nome come designatore rigido c’è una delicata e quanto mai affascinante questione logico-filosofica che, per la sua complessità, qui abbozzeremo solo: la distinzione tra la nozione di “necessario” e quella di “a priori”. Mentre la nozione di necessario indica un concetto metafisico (o logico), in quanto essa esprime una verità “essenziale”, cioè vera in tutti i mondi possibili, l’“a priori” è un concetto epistemico o gnoseologico, ed esso indica una verità conosciuta prescindendo dall’esperienza. Non è detto che ciò che è a posteriori , cioè una conoscenza derivata dall’esperienza, non potrà essere qualcosa di necessario. Io dico che (1)“Fosforo è Espero” solo  dopo che mi sono accertato (ho fatto esperienza) che sia il nome Fosforo che quello di Espero si riferiscono allo stesso oggetto: Venere. Siccome le osservazioni empiriche avrebbero potuto dirci anche che (1) è falso, allora siamo portati ad affermare che il fatto che (1) sia vero, è un fatto contingente e quindi non necessario. Ecco l’errore: considerare tutto ciò che è frutto di una conoscenza legata all’esperienza (a posteriori) come qualcosa di accidentale. E l’errore si compie proprio perché si confonde il concetto di necessario con quello di a priori . (1) certamente non è a priori , ma sicuramente da ciò non si deve concludere che esso esprima una verità contingente.

Il nome agirà in maniera rigida, cioè designerà quell’oggetto in tutti i mondi possibili. Esso si riferirà sempre allo stesso oggetto “Sarà sempre vero, insomma, vero cioè per tutti i mondi possibili, il fatto che un certo Nome, una volta ‘fissato’ a un certo oggetto, si troverà a designare quell’oggetto. Né avrebbe potuto designare un altro, certo. Ma da quando esso sia stato associato a un oggetto (“cioè fissato a un referente”), esso non potrà non designarlo, ovvero lo designerà ‘necessariamente’ ”[17].

Il fatto che al “metro” corrisponda la lunghezza della sbarra conservata a Parigi è una proposizione a priori, ma non necessaria, proprio perché è contingente il fatto che si sia “stipulato” quella determinata lunghezza, che: avremmo potuto, senza troppi problemi, allungarle o accorciarle a piacimento. Ma anche dopo ogni eventuale alterazione della lunghezza della sbarra, il nome “metro”, in una determinata comunità di parlanti, continuerà a designare l’unità di misurazione per eccellenza.

Qualche altro esempio potrà chiarirci meglio le idee. È necessario che “Espero è (sia) Fosforo”. Essi designano la stessa cosa in tutti i mondi possibili. E contemporaneamente è a posteriori la conoscenza del fatto che la stella che appare al mattino è la stessa che vedo la sera. Il nome “Gödel” fissa il riferimento, cioè denota in tutti  i mondi possibili, l’individuo Gödel. Mentre il fatto che abbia “scoperto l’incompletezza dell’aritmetica” non è vero in tutti i mondi possibili: “Supponiamo che qualcuno dice che Gödel è colui ha dimostrato l’incompletezza dell’aritmetica […]. Supponiamo che Gödel non sia di fatto l’autore del teorema . Una persona chiamata “Schmidt”, il cui cadavere fu trovato a Vienna in circostanze misteriose molti anni fa, fu colui che in realtà compì l’opera in questione. Il suo amico Gödel in qualche modo si impadronì del manoscritto che da allora fu attribuito a Gödel. Nella prospettiva in discussione, allora, quando il nostro uomo della strada usa il nome “Gödel”, intende in realtà riferirsi a Schmidt, poiché Schmidt è l’unica persona che soddisfa la descrizione “colui che ha scoperto l’incompletezza dell’aritmetica” […]. Quindi, poiché l’uomo che ha scoperto l’incompletezza dell’aritmetica è in realtà Schmidt, quando parliamo di “Gödel”, noi in realtà ci riferiamo a Schmidt. Ma a me non sembra che sia così. Semplicemente non ci riferiamo a Schmidt” [18]

Il nome, per Kripke, non ha un senso. Ad esso un senso viene dato, donato. Il nome non è l’abbreviazione di una descrizione definita o di un corpus di proprietà, come accadeva nella logica tradizionale. Neanche, però, si può affermare che Kipke neghi totalmente la “descrittività” dei nomi; piuttosto egli sostiene l’importanza pragmatica delle descrizioni che, come ho già ricordato sopra, serviranno esclusivamente a “fissare il riferimento”, ma mai a garantirci la possibilità di individuare le proprietà dell’oggetto, che da quando s’è visto, saranno sempre contingenti.

Un eventuale intreccio (teoretico naturalmente, e non storiografico!) tra la concezione vichiana della “nominazione fantastica”[19] e l’”antidescrittivismo” kripkiano. La “catena causale del riferimento” rappresenta il luogo della donazione di “senso”: un senso viene dato ( e contemporaneamente ricevuto)  da parte di tutti gli anelli che, tutti insieme, costituiscono la “comunità dei parlanti”. Allo stesso modo, quando Vico affermava, nella I Degnità che, “L’uomo fa sé regola dell’universo”, sembra volersi riferire proprio a quel fare originario, essenza dell’uomo: il fingere. Quel fingere che si presentava come uncreare improprio nel Vico dell’Antiquissima, diventa proprio, nella Scienza nuova: il facere diventa fingere. Farsi un senso, fingersene uno. Dare un senso alle cose facendo ciò che per l’uomo è più naturale fare: dare il loro nome. Donazione questa che costituisce l’essenza più intima dell’uomo – e come osserva la Di Cesare – “Da questo punto di vista il significare si rivela la forma prima del fare umano”[20]. La finzione non riguarda solo l’universo della poesia, o allora sarà la poesia stessa  a costituirsi come l’universo dell’”umano”. Dare un significato è lo stesso che fare quella cosa a cui si sta dando il significato. Significare [ significare = signum+facere ] è sempre un “significare poeticamente”, un darsi la “regola”, per rendere giocabile la vita. Come i fanciulli vichiani che prendono “cose inanimate tra mani e trastullandosi, favellarvi come se fussero, quelle, persone vive”[21]. Dare un significato, vuol dire anche dilettarsi dell’uniforme. Dare una forma, una direzione, un senso al caotico e casuale flusso di suoni (o rumori), colori e luce, al difforme, il quale, se non venisse “chiamato”, non rientrerebbe mai a far parte dell’ordine delle cose umane ma continuerebbe a rimanere nella inumana “de-formità” del caos. Il creare dell’uomo si realizza propriamente nella attività poetica, che in Vico non corrisponde a quello che Wittgenstein chiamava “linguaggio in festa”. Il filosofo napoletano, quando parla di poesia o di poeti si riferisce soprattutto al linguaggio che vive in una nazione, in un popolo e non tanto ad una poesia d’arte, di professione. Ne è la prova lampante la Discoverta del vero Omero dove viene rinvenuto il vero significato della poesia omerica: “Che perciò i popoli greci cotanto contesero della di lui patria e ‘l vollero quasi tutti lor cittadino, perché essi popoli greci furono quest’Omero”[22].

Il linguaggio “in festa” con cui lo stesso Vico si è cimentato nella sua Scienza nuova, nasce dalla disposizione naturale di ogni comunità di parlanti a non as-trarre le forme e le proprietà (attributi, descrizioni) dai soggetti[23] dal fatto che fissare in una definizione, in un universale ragionato, le differenti sfaccettature di un’oggetto, porterebbe all’annientamento delle “differenze” a vantaggio della rigida e schematica identità del “genere”. La finzione-creazione, dispensatrice di senso e passione, di cui parla Vico, garantisce, invece, la generazione e la rigenerazione di linguaggi sempre nuovi, di nuovi giochi linguistici: “nuovi tipi di linguaggi, nuovi giochi linguistici, come potremmo dire, sorgono e altri invecchiano e vengono dimenticati […] la parola “gioco linguistico” è destinata a mettere in evidenzia il fatto che il parlare un linguaggio fa parte di un’attività o di una forma di vita”[24]

Concludo con una osservazione su Lacan che si rifà alla suaussuriana distinzione tra langue e parole. L’atto di parola, un atto individuale, è strutturalmente legato ad un sistema sincronico di valori pre-esistente dotato di regole proprie e impersonali (aldilà dell’individuo). L’atto di parola è reso possibile dalla presenza del codice universale della lingua. È  su questa ipotesi di fondo che si fonda L’istanza della lettera dell’inconscio o la ragione dopo Freud che considera il linguaggio trascendente rispetto [25]“alle funzioni somatiche e psichiche che sono al servizio del soggetto”. Il soggetto è “servo del linguaggio”, imprigionato in un discorso dove “il suo posto è già scritto alla sua nascita, non foss’altro che nella forma del nome proprio”[26].


[1] J.S Mill, Sistema di logica raziocinativa e induttiva, Roma, Ubaldini Editore, 1968, p. 27.

[2] Ivi, p. 28.

[3] Ivi, p. 29.

[4] Cfr., Ibidem.

[5] S. Kripke, Nome e Necessità, cit.,  p. 31,

[6] Infatti la “teoria dei concetti agglomerati” di Searle nasce proprio come soluzione alle palesi contraddizione delle tesi di Frege e di Russel. Ma – come osserverà Kripke – è una teoria descrittivista camuffata: << Molti hanno detto che la teoria di Frege e Russel è falsa, ma secondo me essi ne hanno abbandonato la lettera ma ne hanno conservato lo spirito, hanno cioè usato la nozione di concetto agglomerato (cluster concept) >> S. Kripke,  Nome e necessità, cit., p. 33.

[7] P. Casalegno, Filosofia del linguaggio. Un’introduzione., cit., p. 27.

[8] Ivi, p. 28.

[9] Ivi, p. 220.

[10] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1967, p.53,  n.79.

[11] J.  R. Searle, Nomi propri, in La struttura logica del linguaggio, a cura di A. Bonomi, Milano, Bompiani, , 1985, p. 254-255.

[12] Cfr. S. Kipke, Nome e necessità, cit., p. 33.

[13] Ivi, p. 50.,

[14] Giuseppe Salzillo, Nomi e nominazione: spunti per una riflessione, in http://www.ilnodolab.net/articoli/

[15] A. Martone, Farsi un nome. Portare un nome. Qualche proposta di lettura sul tema della nominazione, in “La psicoanalisi”, n. 26, p. 168.

[16] S. Kripke, Nome e necessità, cit., p. 89.

[17] A. Martone, Farsi un nome/portare un nome, cit., p. 158

[18] S. Kipke,  Nome e necessità, cit., p. 82, 83.,

[19] Giuseppe Salzillo, Nomi e nominazione: spunti per una riflessione, in http://www.ilnodolab.net/articoli/

[20] D. Di Cesare, Parola, logos, dabar: linguaggio e verità nella filosofia di Vico, in AA.VV., Vico in Italia e in Germania – Letture e prospettive, a cura di G. Cacciatore e G. Cantillo, Napoli, Bibliopolis, p. 278.

[21] S.N., 186.

[22] S.N., 875.

[23] Cfr. Ivi, 816.

[24] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., p. 21.

[25] Jacques Lacan, Scritti, Einaudi, Torino, 1974, pag 490.

[26] Ibid.