Bacone e Locke: immaginazione e conoscenza (parte 2)

Un altro aspetto che caratterizzò notevolmente l’evoluzione del concetto vichiano di fantasia, è il suo atteggiamento nei confronti del cattolicesimo. Vico cercò sempre di limare il suo pensiero in modo tale da non doversi scontrare con l’ortodossia cattolica. Il pensiero “empio”, la filosofia delle passioni, che non subordinava  al corpo l’anima, creando anzi, una nuova relazione tra essi, era difficilmente accettabile in un epoca dominata dall’asfissiante egemonia controriformista. E ciò che fece il filosofo napoletano, fu proprio “esorcizzare” questo pensiero “empio”, dando ad esso una base prettamente fantasiosa, mitologica, nel senso di un pensiero collocato lontano nel tempo, o forse meglio: fuori dal tempo, fin alle origini della specie umana, fin dove l’occhio umano stesso non sarebbe potuto mai arrivare, se non con la fantasia.

Apparentemente, potrebbe sembrare che Vico si riferisse antropologicamente alle favole fantastiche nate fin dagli albori dell’umanità, bramando sotto banco il superamento, la “depurazione” di tutti questi elementi così fortemente fantastici. Come se Vico ambisse allo stordimento delle pulsioni fantastiche, a vantaggio di una razionalità tutta dispiegata.

È importante tenere presente queste precisazioni, per evitare affrettate interpretazioni della concezione vichiana del linguaggio fantastico. Infatti, J. Trabant ha sostenuto che Vico, diversamente da Humboltd, tenderebbe ad allontanarsi dalla corporeità in vista del raggiungimento di un significato linguistico indipendente dal segno. L’idea, secondo questa interpretazione, dovrebbe precedere la parola, vivere in un mondo a parte dalla parola; c’è un’idea e poi, solo in un secondo momento, l’espressione di essa. Secondo questa interpretazione di Trabant, in Vico, il rapporto tra parola e idea si risolverebbe in un semplice rapporto segnico: << [¼] possiamo costatare che, per quel che riguarda il primo momento strutturale della parola, cioè la connessione di espressione e contenuto, la concezione vichiana della parola, nonostante il resto “naturale”, […]corrisponde a ciò che Humboltd chiama segno >>[1]. Non mi sento di condividere né questa affermazione né l’idea secondo la quale (sempre secondo Trabant) l’elemento poetico fantastico del linguaggio fosse inteso dal Nostro come una mancanza o come un difetto[2], ma anzi, credo che il concetto di finzione fantastica sia una degli aspetti più originali e straordinariamente rivoluzionari del suo pensiero. Avremo modo, nel proseguimento di questa indagine, di evidenziare e provare questa mia constatazione.


[1] Qui, per  “resto naturale”, Trabant intende riferirsi all’elemento poetico-fantastico che comunque caratterizzerebbe la concezione vichiana del linguaggio, ma che verrebbe sempre e comunque concepita come un difetto o una mancanza. Cfr. J. Trabant, Immagine o segno. Osservazioni sul linguaggio in Vico e Humboltd, in “ Bollettino del Centro di Studi Vichiani”, 1992-93, p. 246.

[2] << Sul suo cammino, allontanandosi dalla corporeità e dirigendosi verso una spiritualità sempre più pura l’umanità, secondo Vico, dovette in realtà lasciare dietro di sé le origini corporali, poetiche, fantastiche, trasformando con ciò anche la lingua da simbolo in segno. Poiché però purtroppo l’uomo rimarrà sempre anche corpo e non potrà mai raggiungere la pura spiritualità – essa rimane come obiettivo – la parola non potrà mai veramente divenire segno, vale a dire nel linguaggio umano è sempre contenuto come resto corporeo e naturale l’elemento poetico-fantastico. Cioè l’elemento poetico, mitico, viene visto da Vico in definitiva come una mancanza, come un difetto >>. Ivi, p.246.