Il modello comunitario

Il modello comunitario concepisce il gruppo dei curanti e il gruppo dei pazienti come situato nel contesto di vita quotidiana, come ambito psicoterapeutico globale, articolato al suo interno attraverso momenti e percorsi differenziati. Nonostante il fatto sia sorto come movimento caratterizzato in senso ideologico, al di fuori della cultura psicoanalitica, la comunità è stata adottata da numerosi psicoanalisti, come approccio per la fondazione di esperienze rimaste esemplari nel patrimonio psicoanalitico: un vero e proprio laboratorio privilegiato di ricerca. Basti pensare alle comunità del Cassel Hospital in Inghilterra iniziata da Tom Main negli anni cinquanta, di Les Cèdres in Svizzera diretta da Woodbury negli anni settanta, dei Lieu de Vie a Villerbanne in cui lavora Sassolas e soprattutto all’esperienza della Velotte, sorta nel 1968 e diretta da Racamier a Beçanson.[1]

Anche se partendo da contesti molto diversi e da specifiche metodologie cliniche e organizzative, queste comunità presentano elementi comuni di rilevante interesse: innanzitutto la valenza terapeutica di tutte le relazioni e le attività quotidiane svolte in ambito comunitario, il coinvolgimento e la partecipazione di tutte le componenti (medici, infermieri, amministratori, famiglie) alla gestione comunitaria. Un altro elemento è rappresentato dalla responsabilizzazione e attivazione dei pazienti in un clima di accoglimento e di spontanea comunicazione. Infine, ci si impegna sempre a garantire la ritualizzazione di momenti gruppali di autoriflessione, di coordinamento e di decisione dei progetti terapeutici aperti alla comunità nelle sue componenti, o al gruppo degli operatori stessi: alternando a momenti di lavoro indirizzati al singolo paziente con quelli rivolti al piccolo gruppo.[2]

Differenziandosi dalle prime ondate del movimento comunitario, che si ponevano come forza dirompente nei confronti del custodialismo manicomiale, le più recenti esperienze di comunità terapeutica che accolgono minori psicotici, vengono a costituirsi non tanto come eventi esemplari, ma come esperienze definibili all’interno di un’ampia gamma di possibilità: comunità per “adolescenti”, per “giovani psicotici adulti”, per “psicotici cronici”, ecc. . Anche gli spazi e le modalità organizzative e cliniche sono differenziati a seconda delle diverse esigenze di protezione e gravità dei pazienti: comunità protette, centri residenziali terapeutici, case alloggio ecc. .


[1] Marta Vigorelli, Il lavoro della cura nelle istituzioni. Progetti, gruppi e contesti nell’intervento psicologico, 2005, Franco Angeli, p. 47, p. 102, p. 107.

[2] Ibidem