Vico e la Logica di Port-Royal: parte 2

Vico insiste sul fatto che, iniziare troppo precocemente con la critica, con il pensiero astratto, nel senso del pensiero logico-deduttivo, potrebbe causare danni irreversibili nel discente, e che quindi bisogna prima impegnarsi con lo studio della topica, in quanto con essa  è possibile arricchire il proprio repertorio di argomenti e, sviluppando  il senso comune, è possibile acquisire la conoscenza della vita  pratica e dell’eloquenza (linguaggio e vita, dire e fare) , e rafforzando la fantasia e la memoria, s’impedirebbe alla spontaneità   di venire martoriata da un prematuro insegnamento della critica: “solo in seguito dovrebbero apprendere la critica, per tornare infine sull’insieme degli insegnamenti ricevuti giudicabili con la propria testa, e sarebbe opportuno che nel discutere i contenuti si esercitassero a sostenere tesi contrapposte”[1].

Vico si ribella all’ipse dixit, all’eccessiva e troppo marcata presenza del maestro, il quale dovrebbe lasciare spazio alla spontaneità del discepolo. Egli dovrebbe esserci e non esserci contemporaneamente. Il filosofo napoletano accusa Arnauld, perché egli : “infarcisce la sua logica di complicati esempi tratti da ogni genere  di discipline, […] ove non siano state in precedenza assimilate le arti e le scienze da cui sono state ricavate, difficilmente potrebbero essere in qualche modo comprese dal discepolo”[2].

Tutto questo discorso dà una spinta ulteriore al processo di allontanamento dalla malebranchiana concezione di fantasia, e addirittura, come osserva il Costa, << [il] De studiorum ratione, acquista il carattere di sfida a Malebranche >>[3]. Il filosofo francese considerava la poesia e la storia come pericolose per il cervello stesso del discepolo, proprio perché, l’insegnamento di queste discipline comprometterebbe il naturale funzionamento delle fibre nervose.  E quindi, mentre Malebranche  considerava gli oratori come nemici della ragione, in quanto favoriscono la diffusione dell’errore, per il Nostro, non bisognerebbe permettere la menomazione delle giovanili facoltà fantastiche.

Con questo il filosofo napoletano non intendeva assolutamente surclassare l’importanza della ragione, anzi, a proposito della geometria, egli esaltava questa particolare branca della matematica allo stesso modo della pittura, della poesia, l’oratoria, in quanto essa richiede una  capacità immaginativa molto sviluppata. Per Malebranche la geometria sta alla base dello studio delle scienze, e nonostante egli la considerasse corroborante per un corretto sviluppo della fantasia,  egli elogiava, a differenza di Vico, anche l’algebra di Cartesio, considerando anch’essa come una dottrina benefica per lo sviluppo della fantasia, della memoria e dell’ingegno. L’algebra, insieme naturalmente all’analisi, sono considerate dal filosofo napoletano invece, come assolutamente infruttuose, se insegnate prematuramente ai giovani, mentre la geometria: “giova moltissimo alla composizione di finzioni poetiche, sia rispetto all’esigenza che i personaggi mantengano, per tutto l’arco della rappresentazione, il carattere con cui sono stati introdotti, arte che Omero per primo ha insegnato, come scrive Aristotele, sia perché, come osserva il medesimo filosofo, esistono in poesia paralogismi deduttivi del tipo ‘Dedalo vola se è alato’ ”.[4]

Solo l’ingegno riesce a generare lo straordinario connubio tra scrittura e geometria. Quello stesso ingegno che senza l’analisi della matematica, permise ad Archimede di inventare << meravigliose macchine da guerra senza nulla sapere di analisi […] >>[5].


[1] Ivi, p. 62.

[2] Ivi, p. 63.

[3] G. Costa, Genesi del concetto vichiano di fantasia, cit., p. 340.

[4] G..B. Vico, De nostri …, cit., p. 93.

25Ivi, p. 72.