Locke, il piacere e il dolore

Fonte: J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, Libro II, 20, 1-5

1. Fra le idee semplici che noi riceviamo dalla sensazione e dalla riflessione, il dolore e il piacere sono molto considerevoli. Poiché, come il corpo può avere una sensazione pura e semplice, o accompagnata da dolore o piacere, così il pensiero, ossia la percezione dello spirito, può essere semplicemente tale, oppure anch’esso accompagnato da piacere o dolore, diletto o tormento, o come altrimenti vorrete dire. Queste, come altre idee semplici, non possono venire descritte, né si possono definire i loro nomi; possono venir conosciute soltanto con l’esperienza, come accade per le idee semplici dei sensi. Poiché, se le definissimo dalla presenza del bene o del male, questo non servirebbe altrimenti a farcele conoscere, se non facendoci riflettere su ciò che proviamo in noi stessi in seguito alle molte e varie operazioni del bene e del male sul nostro spirito, in quanto esse diversamente agiscono sopra di noi o sono da noi considerate.

2. Dunque, le cose sono buone o cattive solo in rapporto al piacere o al dolore. Chiamiamo bene ciò che è atto a produrre o accrescere piacere in noi, o diminuire la pena, oppure a procurarci o conservare per noi il possesso di un qualunque altro bene o l’assenza di qualunque male. E, al contrario, chiamiamo male ciò che è atto a produrre o accrescere qualunque dolore, o a diminuire in noi il piacere, oppure a procurarci un male o a privarci di un bene. Bisogna intendere che parlo di piacere e dolore in rapporto al corpo e allo spirito, secondo che essi vengono comunemente distinti; benché, in verità, si tratti soltanto di differenti stati dello spirito, talvolta causati da un disordine del corpo, e talvolta dai pensieri dello spirito.

3. Il piacere e il dolore e ciò che li determina, cioè il bene ed il male, sono i cardini sui quali girano le nostre passioni. E se riflettiamo intorno a noi stessi, e osserviamo in qual modo tali cose agiscano, per diversi rispetti, sopra di noi, quali modificazioni o temperie dello spirito producano in noi, e quali sensazioni interne (se così posso chiamarle), da tutto ciò potremo farci le idee corrispondenti alle nostre passioni.

4. Così, chiunque rifletta su ciò che egli pensa del diletto che può produrre in lui qualunque cosa presente o assente, avrà 1’idea di ciò che chiamiamo amore. Poiché quando uno dichiara in autunno, quando la sta mangiando, o in primavera, quando non ve n’è, che gli piace l’uva, questo vuol dire nient’altro se non che il sapore dell’uva gli dà diletto; ma se un’alterazione della salute o della sua costituzione venga a distruggere il diletto che prova nell’assaporarla, allora si potrà dire che l’uva non gli piace più.

5. Al contrario, il pensiero del dolore che può produrre in noi una qualunque cosa presente o assente, è ciò che chiamiamo odio. Se fosse affar mio qui portare la mia ricerca un poco oltre le pure idee delle nostre passioni, in quanto dipendono da modificazioni diverse del piacere e della pena, osserverei che il nostro amore e odio per gli esseri insensibili e inanimati si fonda comunemente sul piacere o sul dolore che riceviamo dal loro uso e dall’applicazione di essi, in qualunque modo, ai nostri sensi, anche se ciò comporti la loro distruzione; ma l’amore o l’odio che portiamo ad esseri capaci di felicità o infelicità consiste spesso nel turbamento o nel diletto che troviamo in noi stessi, e che sorge dalla considerazione del fatto stesso del loro esistere o del loro essere felici. Così, l’esistenza e il benessere dei bambini o degli amici di una persona producendo in lei un costante diletto, si può dire che essa li ama costantemente. Ma basti osservare che le nostre idee dell’amore e dell’odio non sono che le disposizioni dell’anima relative al piacere e al dolore in generale, comunque siano prodotti in noi.