La terapia cognitivo comportamentale – Cognitive behavioral therapy (CBT) [2]

“There’s more to the surface than meets the eye”[1], questo rappresenta il motto per definire la terapia cognitivo comportamentale come inversa alla psicoanalisi, ovviamente siamo di fronte a una semplificazione. Beck contrappose l’idea di inconscio con quella di conscio proponendo un modello che concepisse la clinica incentrata soprattutto sugli aspetti consci e razionali dell’individuo.

Il cognitivismo clinico è un campo eterogeneo e in continua evoluzione[2]. Abbiamo scelto di concentrarci su tre autori: Aaron Beck, Albert Ellis e Adrian Wells. I primi due sicuramente sono più noti e hanno segnato il passo dello sviluppo del modello teorico alla base della terapia cognitivista. Discorso a parte merita Adrian Wells che ha applicato il concetto di metacognizione alla prassi clinica.

Sia Ellis[3] sia Beck[4] ritennero, in estrema sintesi, di concentrarsi sulle verbalizzazioni coscienti o preconsce che precorrono, accompagnano o fanno seguito ad un certa condizione di disagio emotivo. Scrive Ellis:

Come praticamente tutti gli psicoterapeuti dell’epoca, avevo trascurato le precise, semplici frasi dichiarative ed esclamative che il paziente si era detto per creare i suoi disturbi e, cosa più importante, continuava a ripetersi letteralmente ogni giorno della settimana per conservare quegli stessi disturbi.[5]

Tali verbalizzazioni consce secondo Ellis e Beck, attraverso un processo di inferenze erano alla base per comprendere le cause di gran parte delle “sofferenze emotive”. Beck chiamò queste verbalizzazioni pensieri automatici. [6]

Il concetto di pensiero automatico negativo è fondamentale nel modello teorico di Beck. Questi pensieri sono negativi perché tendono a generare stati emotivi e comportamenti negativi e sono automatici perché sembrano apparire fulmineamente e senza uno sforzo cosciente.[7] La rapidità con cui appaiono, spesso ne impedisce una analisi critica e, l’altro aspetto, è che questi pensieri sono in superficie, sono sintetici, es. “Adesso sto annoiando tutti!” e anche se non sono corroborati da evidenze sono ritenuti attendibili per i pazienti, soprattutto nel momento in cui si attiva lo stato emotivo negativo.

Ecco come Beck descrisse la scoperta dei pensieri automatici e di come comprendendoli è possibile accedere alle esperienze emotive:

«Avevo istruito tutti i miei pazienti alle regole di base della libera associazione e la maggior parte di essi imparava molto bene a superare la tendenza a censurare le proprie idee. Sebbene riconoscessi che i pazienti non potevano riferire tutti i pensieri possibili, pensavo che le loro verbalizzazioni rappresentassero un campione sufficientemente buono della loro ideazione conscia. Col tempo, tuttavia, cominciai a sospettare che i pazienti non stessero riportando alcuni settori della loro ideazione. Questa omissione non era dovuta ad alcuna resistenza o difesa da parte del paziente, ma piuttosto era dovuta al fatto che il paziente non era stato allenato a concentrare l’attenzione su certi tipi di pensiero (p. 22). […] Un paziente durante una libera associazione mi aveva rivolto con rabbia delle critiche. Dopo una pausa, gli ho chiesto come si sentiva. Egli rispose: – Mi sento molto in colpa –. A quel tempo, ero convinto di aver capito esaurientemente la sequenza degli eventi psicologici. Secondo il modello psicoanalitico convenzionale, c’era una semplice relazione causa-effetto tra la sua ostilità e il senso di colpa; cioè, la sua ostilità induceva direttamente i sensi di colpa. Non c’era bisogno, secondo questo schema teorico, di interporre alcun altro anello nella catena.

Ma il paziente stesso fornì spontaneamente l’informazione che, mentre stava esprimendo critiche cariche di rabbia nei miei confronti, aveva correnti di pensiero che scorrevano pressoché contemporaneamente: una di esse aveva a che fare con la sua ostilità e le critiche che aveva espresso nelle libere associazioni, e un’altra che non aveva espresso. Quindi riportò l’altra corrente di pensieri: – Ho detto una cosa sbagliata… Non la dovevo dire… Ho sbagliato a criticarlo… Sono cattivo… Non mi ama… Sono una persona cattiva… Non ho alcuna scusante per essere stato così ignobile. Questo caso mi mise di fronte chiaramente per la prima volta a un flusso di pensieri che correva parallelamente al contenuto dell’altro flusso che era stato espresso in precedenza. Capii così che c’era una serie di pensieri che congiungeva l’espressione di rabbia del paziente ai sentimenti di colpa. Tale ideazione intermedia non solo era identificabile, ma era direttamente responsabile del senso di colpa: il paziente rimproverava a se stesso, e quindi si sentiva colpevole, per aver espresso rabbia nei miei confronti. […] Per vagliare questa ricca fonte di informazione, fu necessario allenare i pazienti a osservare il flusso dei pensieri che non venivano riferiti . Dal momento che la mia iniziale scoperta era stata che questi pensieri nascosti precedevano uno stato emotivo, istruii i pazienti in questo modo: ogni volta che lei prova una sensazione o un’emozione spiacevole, cerchi di ricordare quali pensieri ha avuto in mente prima di questa sensazione. Questa istruzione aiutava i pazienti a dirigere la loro attenzione sul modo di pensare, e infine erano in grado di identificare i pensieri che precedevano il vissuto emotivo. Siccome questi pensieri sembravano emergere automaticamente in modo molto rapido, li ho chiamati pensieri automatici. Come vedremo nei capitoli successivi, l’evidenziazione dei pensieri automatici ha fornito il materiale di base per comprendere gli stati e i disturbi emotivi.[8]

L’idea di Beck, come quella di Ellis del resto, è che sia possibile “insegnare” ai pazienti a porre attenzione ai pensieri che precedevano e accompagnavano un certo vissuto emotivo.

Questi pensieri  pur emergendo automaticamente in maniera conscia e quindi pur essendo facilmente accessibili se ne poteva diventare consapevoli solo attraverso uno specifico training capace di promuovere uno sforzo volontario di attenzione. Sono pensieri automatici, rapidissimi, dotati di immediata plausibilità per il soggetto che non è in grado di assumere la giusta distanza critica da essi, avendo per questo, attraverso di essi, l’impressione di cogliere il mondo così come si presenta come se fosse un atto percettivo unico e non il risultato di una serie di inferenze soggettive da verificare e pertanto opinabili.

È evidente come anche qui, come abbiamo già visto nella teoria della REBT, ci troviamo nella parte bassa del grafo.

I pensieri automatici esprimono uno specifico stile di attribuzione di significato al mondo. Se un soggetto crede di essere una persona noiosa  avrà pensieri automatici che confermeranno questa convinzione, a partire da regole di inferenza ben precise che forniscono la struttura allo schema disfunzionale attraverso il quale la realtà verrebbe distorta. Gli schemi sono rappresentabili come delle vere e proprie regole di inferenza implicita errata.

Secondo Beck[9], a partire dagli schemi disfunzionali, esiste un elenco di errori che accompagnano le procedure di valutazione e giudizio sul mondo, convinzioni generate dagli schemi disfunzionali, sono gli errori procedurali sistematici nei processi di valutazione e di giudizio che abitualmente tali pazienti compierebbero.

“Gli errori sistematici nel modo di pensare dell’individuo depresso servono a mantenere in lui la convinzione della validità dei suoi concetti negativi, malgrado vi siano prove del contrario. 1. La deduzione arbitraria (sistema di risposte) si riferisce al processo di trarre una determinata conclusione in assenza di prove che la sostengano, o quando la prova è contraria alla conclusione. 2. L’astrazione selettiva (sistema di stimoli) consiste nel concentrarsi su un particolare estrapolato dal suo contesto, e nell’ignorare aspetti della situazione più salienti, concettualizzando l’intera esperienza sulla base di questo frammento. 3. La generalizzazione eccessiva (sistema di risposte) consiste nel trarre una regola generale o una conclusione sulla base di uno o più episodi isolati e nell’applicare tale concetto ad altre situazioni, connesse o non connesse col caso specifico. 4. L’ingigantire e il minimizzare (sistema di risposte) si riflettono in errori nel valutare significato o l’importanza di un evento, talmente grossolani da costituire una distorsione. 5. La personalizzazione (sistema di risposte) si riferisce alla tendenza del paziente a porre gli eventi esterni in relazione a se stesso quando non vi sono elementi per operare tale associazione. 6. Il pensiero assolutistico, dicotomico (sistema di risposte) si manifesta nella tendenza a collocare tutte le esperienze in due categorie opposte: perfetto o difettoso, immacolato o sporco, santo o peccatore ecc. Nel descrivere se stesso, il paziente sceglie la categoria più negativa (p. 26).”[10]

Beck affronta la questione delle distorsioni cognitive identificandone diversi tipi, che aggiungeva man mano nel corso delle sue ricerche in diversi articoli arrivando a una lista abbastanza stabile[11]:

  • ipergeneralizzazione (una esperienza negativa viene generalizzata),
  • inferenza arbitraria (insistenza su un punto di vista negativo senza evidenze),
  • astrazione selettiva (selezionare una parte negativa delle informazioni ignorando gli aspetti positivi),
  • attenzione selettiva (focalizzarsi su una gamma ristretta di fattori che confermano il punto di vista generalmente negativo),
  • pensiero dicotomico (pensiero bianco/nero dove le informazioni neutre, quelle grige per intenderci, vengono incluse inella categorie di quelle negative),
  • doverizzazioni (pretesa su sé stessi, gli altri e il mondo, vedi capitolo su Ellis), lettura del pensiero (es. un proprio difetto è visibile e evidente a tutti),
  • catastrofizzazione (ingigantire i pericoli, vedi capitolo su Ellis),

etichettamento (accentuazioni di aspetti negativi attribuiti agli altri o a situazioni che diventano stereotipi negativi).


[1] A. T. Beck, There is more on the surface than meets the eye. Lecture presented in The Academy of Psychoanalysis, New York, 1963.

[2] M. J. Mahoney, Human Change Processes: The Scientific Foundations of Psychotherapy, New York, Basic Books, 1991.

[3] A. Ellis, (1962), Reason and Emotion in Psychotherapy, New York, Lyle Stuart, trad. it. Ragione ed emozione in psicoterapia, Roma, Astrolabio, 1989.

[4] A. T. Beck, 1976, Cognitive Therapy and Emotional Disorders, New York, International University Press, trad. it. Principi di terapia cognitiva, Roma, Astrolabio, 1984.

[5] A. Ellis, 1962, Reason and Emotion in Psychotherapy, New York, New York, trad. it. Ragione ed emozione in psicoterapia, Roma, Astrolabio, 1989. (Ellis 1962, p. 30).

[6] A. T. Beck, (1976) Cognitive Therapy and Emotional Disorders, New York, International University Press, trad. it. Principi di terapia cognitiva, Roma, Astrolabio, 1984.

[7] A. T. Beck (1963), Thinking and depression. Part I: Idiosyncratic content and cognitive tive distortions, Archives of Genera) Psychiatry, 9: 324-333.; A. T. Beck (1976), Cognitive therapy and the emotional disorders, Harmondsworth, UK Penguin, trad. it., Principi di terapia cognitiva, Roma, Astrolabio, 1984.

[8] A. T. Beck, (1976), Cognitive therapy and the emotional disorders, Harmondsworth, UK, Penguin, trad. it., Principi di terapia cognitiva, Roma, Astrolabio, 1984, pp. 22-29.

[9] A. T. Beck, A. I. Rush, B. F. Shaw, e G. Emery, (1979) Cognitive Therapy of Depression, New York, Guilford, trad. it. Terapia cognitiva della depressione, Torino, Bollati Boringhieri, 1987.

[10] A. T. Beck, A. I. Rush, B. F. Shaw, G. Emery, (1979) Cognitive Therapy of Depression, New York, Guilford, trad. it. Terapia cognitiva della depressione, Torino, Bollati Boringhieri, 1987.

[11] A. T. Beck (1963), Thinking and depression. Part I: Idiosyncratic content and cognitive tive distortions, Archives of Genera) Psychiatry, 9: 324-333; A. T. Beck (1976), Cognitive therapy and the emotional disorders, Harmondsworth, UK Penguin, trad. it., Principi di terapia cognitiva, Roma, Astrolabio, 1984; A. T. Beck (1979), Schools of `thought’ (comment on Wolpe’s `Cognition and causation tion in human behavior and its therapy’), American Psychologist, 34: 93-98.).