Il linguaggio fantastico

La “boria dei dotti” di cui parla Vico, si riferisce proprio a quelle credenze (razionali) che finiscono con lo  “sfatare” le favole, i miti, i racconti fantastici, e che sanciscono l’esistenza di un sapere (razionale) celato dietro la mitopoiesi originaria propria della parola poetica e che non fa altro che allontanare dalla reale essenza delle cose.

Il linguaggio fantastico non necessita di dispiegamenti o chiarimenti vari, è esso stesso l’ “incarnazione” della verità, è esso stesso lo “schiarimento”.  La parola fantastica dirada l’ ingens sylva, essa “schiarisce” la conoscenza. La paura che assale dinnanzi al mistero dell’Essere irrompe nell’uomo, lo penetra. La paura si ripara nella nominazione fantastica. Essa ammorbidisce la troppa luce del mistero, ma allo stesso modo non la spegne.

Ciò che rimane dell’incendio che ha smembrato l’estesa foresta dell’enigma è poesia: “Ma ciò che resta, lo istituiscono i poeti” (Hölderlin).

La verità si mostra, appare, come un fulmine. Essa  viene in un “nutus oculorum” ( “un batter di ciglio”, “un cenno dell’occhio”[1]. Essa è la “volontà di Dio”: “numen”. La rapidità del fuoco primordiale brucia dentro, rende sgomenti, perplessi, paralizza. Non resta che il canto, non resta che “dare un nome” al terrore: “i primi popoli si finsero la prima favola divina, la più grande di quante mai se ne finsero appresso, cioè Giove, re e padre degli uomini e degli dèi, ed in atto di fulminante”[2]. Tutto era permeato dal mistero, tutto era ignoto, allora “tali uomini tutto ciò che vedevano, immaginavano ed anco essi stessi facevano, credetter essere Giove, ed a tutto l’universo di cui potevan esser capaci ed a tutte le parti dell’universo diedero l’essere di sostanza animata”, diedero un nome.

I primi uomini parlavano per  “cenni”, sussultarono nella parola poetica, il loro tremore parlava. Il vero parlava attraverso la loro  “robustezza di sensi”, la “volontà di Dio” si faceva strada nell’uomo attraverso il tumulto della parola poetica: “i primi uomini, che parlavan per cenni, dalla loro natura credettero i fulmini, i tuoni fussero cenno di Giove ( onde poi da nuo, “cennare” fu detta “numen” la “divina volontà”, con una troppo sublime idea e degna da spiegare la maestà divina)”[3]

Perché “sfatare” una favola? Perché dargli un senso tutto dispiegato? Il Sommo Facitore è colui che fa dicendo, e ciò che egli fa si dissero “Fati”: Finalmente mi fermo in contemplare il sommo facitore; e fo vedere che lo sia “Nume”, perché col cenno o, per meglio dire, con l’istantaneo operare vuole, col fare parla: talché le opere di Dio sono i suoi parlari, che dissero “Fati” [4]

Sfatare una favola è violentare la sua essenza, scardinare la pura istantaneità con la quale essa “appare” all’uomo: è il frutto maligno della “boria dei dotti”.

Dictum” e “fatum”, asserisce ancora Vico, sono sinonimi, in Dio detto e fatto coincidono: Sicchè’ i “fatti di Dio sono “detti”, e i “casi” delle parole pronunciate da lui sono gli eventi delle cose, e “fatum” è sinonimo di “factum[5]. La parola non può essere separata dalla conoscenza. L’Essere stesso si dis-vela nella parola, la verità rinasce nella parola: “factum” e “verum” si convertono in “verbum” [6]. E come osserva M. Agrimi : Col che i due livelli del “conoscere” e del “fare”, del “mentale” e del “corporeo” sono (anticartesianamente) unificati nel verbum, che quindi intende presentarsi come l’atto in cui simultaneamente si costituisce la parola, l’idea e la cosa significata[7]. Qui il fatum si converte in fatto,essi sono sinonimi, sì, ma solo in Dio: ita ut facta Dei dicta sunt; mentre la grande innovazione della Scienza nuova sarà proprio nel fatto che lo stesso uomo attraverso la nominazione fantastica, riuscirà a fare parlando, senza più cadere nella separazione soggetto oggetto, mentale corporeo, conoscere fare: dictum factum, appunto.


[1] Vico G. B., De Antiquissima Italorum Sapientia, Opere, a cura di F. Nicolini, Milano-Napoli, Ricciardi Ed., 1953, p. 305.

[2] Vico G. B., Principi de scienza nuova, a cura di F. Nicolini , Napoli, 1953, paragrafo 379.

[3] Ibidem.

[4] G.B. Vico, Risposta a tre opposizioni, in Opere, a cura di F. Nicolini, Milano-Napoli, ed. Ricciardi 1953, p. 319.

[5] Ivi, p. 306.

[6]Ibidem.

[7] M. Agrimi, << Et “factum” et “verum” cum “verbo” convertuntur >>. Lingua divina e “primi parlari delle nazioni in Vico”, in “Giornale Critico della Filosofia”, fasc. III settembre-dicembre 1993.