Ermeneutica come azione critica restauratrice

Fonte: P. Ricoeur, Finitude et culpabilité, II,  La symbolique du mal, Paris, 1960, trad. it. Finitudine e colpa, di M. Girardet, Il Mulino, Bologna, 1970, pagg. 626-628

Ma il punto piú importante è ancora un altro, e cioè che non esiste mai un linguaggio simbolico senza ermeneutica; là dove un uomo sogna e delira, un altro uomo si fa avanti per interpretare; quello che era già discorso, anche se incoerente, rientra nel discorso coerente per mezzo dell’ermeneutica; in questo senso l’ermeneutica dei moderni prolunga le interpretazioni spontanee dei simboli, che non sono mai venute meno. Quello che invece è caratteristico nella ermeneutica moderna è che essa rimane sulla linea del pensiero critico. La sua funzione critica non la distoglie dalla sua funzione di appropriazione: direi anzi che la rende piú autentica e piú perfetta. La dissoluzione del mito-spiegazione è il cammino che deve essere necessariamente percorso per giungere alla restaurazione del mito-simbolo: il tempo della restaurazione è il tempo della critica. Noi che da ogni punto di vista siamo i figli della critica, cerchiamo di superare la critica per mezzo della critica, cioè con una critica non piú riduttrice, ma restauratrice. Era questa la visione che animava Schelling, Schleiermacher, Dilthey, e oggi, in senso diverso, Leenhardt, van der Leeuw, Eliade, Jung, Bultmann; abbiamo oggi una coscienza piú acuta dell’immenso impegno rappresentato da quest’ermeneutica; da un lato essa costituisce la punta avanzata della critica, presa di coscienza del mito in quanto tale; e questa presa di coscienza accelera a sua volta il movimento di demitologizzazione che è il corrispettivo di un’individuazione sempre piú rigorosa di ciò che è storia secondo il metodo storico; demitologizzazione che è conquista irreversibile della veracità, dell’onestà intellettuale, dell’oggettività. D’altra parte, l’ermeneutica moderna si propone di rivitalizzare la filosofia a contatto con i simboli fondamentali della coscienza.

Significa questo che potremo tornare alla prima ingenuità? Questo no; qualcosa è stato comunque perduto, irrimediabilmente: l’immediatezza della credenza. Ma se non possiamo piú vivere i grandi simboli del sacro, secondo la credenza originaria, noi moderni possiamo almeno tendere, nella critica e per suo mezzo, a una seconda ingenuità. È insommainterpretando che possiamo di nuovo intendere; è quindi nell’ermeneutica che si scioglie il dono del significato attraverso il simbolo e si svolge l’impresa intelligibile della decodificazione.

In che modo l’ermeneutica affronta questo problema?

Quel che abbiamo chiamato dianzi un nodo – il nodo nel quale il simbolo dà e il critico interpreta – viene mostrato dall’ermeneutica come un circolo. Possiamo enunciarlo rudemente: “Bisogna comprendere per credere, ma bisogna credere per comprendere”. Questo non è un circolo vizioso, e ancora meno un circolo mortale; esso è anzi vivente e stimolante. Bisogna credere per comprendere: l’interprete non si accosterà mai infatti a ciò che dice il suo testo se non vive nell’aura del significato interrogato […]. L’ermeneutica non domanda un’affinità da vita a vita, ma un’affinità del pensiero con ciò a cui mira la vita, insomma del pensiero con la cosa di cui si tratta. È in questo senso che bisogna credere per comprendere. E, tuttavia, solo comprendendo possiamo credere.

La seconda immediatezza che noi cerchiamo, la seconda ingenuità che attendiamo non è infatti piú accessibile se non nell’ermeneutica: possiamo credere solo interpretando. È la modalità “moderna” della credenza nei simboli; espressione dell’affanno in cui si muove la modernità ed espressione del suo rimedio.

Questo è il circolo: l’ermeneutica procede dalla comprensione di ciò che ha il compito di comprendere interpretando. Grazie però al circolo dell’ermeneutica posso ancora oggi comunicare col sacro, esplicitando la precomprensione che anima l’interpretazione. Cosí l’ermeneutica, conquista della “modernità”, è uno dei modi attraverso i quali la “modernità” si supera in quanto oblio del sacro. Io credo che l’essere può ancora parlarmi, non piú certo nella forma precritica della credenza immediata, ma come la seconda immediatezza a cui mira l’ermeneutica. Questa seconda ingenuità vuol essere l’equivalente post-critico della ierofania pre-critica.