Aprirsi alla perdita

psico

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L’utilità, l’idea di performance, la velocità con cui ottenere ciò che serve, tutto ciò oggi è elevato a valore etico. È richiesta una velocità nell’esecuzione delle prestazioni e nel raggiungimento degli obiettivi sempre più alta, è una velocità che lascia sempre meno tempo ai ritardi, ai momenti di socialità, di condivisione, di incontro e di ascolto. Bisogna rispondere a parametri sempre più rigorosi, a standard che diventano criteri universali capaci di garantire prestazioni più veloci ed efficienti, utili per il conseguimento dei risultati prefissati. Ma quali risultati? E perché proprio quelli?

La sempre più esasperata ottimizzazione dei processi produttivi sembra puntare a farci diventare tutti dei “docili robot”.

L’etica utilitaristica è oggi imperante. Anche nell’attribuzione di un valore all’azione sociale è l’utile l’unico parametro in gioco. Il bello, il giusto, la solidarietà diventano flatus vocis, assumono la vaporosità retorica delle buone intenzioni. La cosa più importante è avere un congruo tornaconto, un adeguato vantaggio: anche le relazioni sociali tendono ad assumere un valore strumentale. Basta osservare lo stile con cui la politica organizza la sua parola vuota per rendersene conto.

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Che posto dare dunque ai “ritardati”? Quale agli “emarginati”? Ed ai “folli”? Ed aggiungerei: la psicoanalisi, che posto può avere in tutto ciò?

Il concetto di salute mentale è entrato a far parte del sociale della psichiatria soprattutto quando questa ha capito che i manicomi non portavano da nessuna parte e che il loro compito era diventato solo quello di gestire l’angoscia della società di fronte all’impensabile della follia.

Potremmo osare un po’ di più? Potremmo dire che non è tanto la follia a dover essere ricondotta all’ordine simbolico, ma al contrario è l’insieme delle istituzioni sociali che andrebbero reinterpretate a partire dalla singolarità del folle?

L’Edipo, infondo, potrebbe essere letto come una modalità (una tra le tante) di trattare le forze pulsanti dell’inconscio? Di strutturarle? Per renderle più sopportabili, affinché le spinte fluide della vita pulsionale possano riconfigurarsi rendendo più abitabile il mondo, rendendo possibili quelle istituzioni quali la famiglia, la struttura economica, i modi di produzione, e cosi via?

La questione in gioco è: come far sì che le singolarità possano stare in questo mondo, senza annullarsi nella massa omologante delle istituzioni.

 

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L’inconscio non corrisponde ad una qualche “sostanza” osservabile, misurabile, esso si mostra come una strana ed opaca intenzionalità. Un’intenzionalità che si ripete. Aldilà di ciò che crediamo di sapere, su noi stessi e sugli altri.

L’unica vera certezza nella psicoanalisi è che c’è qualcosa che ritorna. Qualcosa che ci situa, ci getta lì, per niente padroni in casa nostra.

Il primo passo, un po’ maldestro, è quello di tentare uno “sblocco”, ovvero è quello di sciogliere il nodo di questa ripetizione che torna e poi ritorna ancora. La psicoanalisi invece ci indica una strada nuova. Ci suggerisce di analizzare il “blocco ripetitivo”, di farne qualcosa, la psicoanalisi cerca la singolarità del proprio fallimento per farne un punto di forza.

L’inconscio ci fa vacillare, zoppicare. L’inconscio è strutturato come il linguaggio ma è anche battito temporale, è una discontinuità all’interno della catena significante. E’ una temporalità pulsante. L’inconscio si apre e poi si chiude, come una ferita mal suturata.

Come dar conto di ciò nelle istituzioni?

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Se da un lato la psicoanalisi ci orienta verso quell’operazione di riduzione del sintomo ai suoi minimi costituenti per poterne così estrarre una singolarità, quell’osso duro intorno a cui il sintomo si costruisce, dall’altro lato le istituzioni ci chiedono di ammaestrare secondo i modelli sanciti nelle linee guida, proprio quell’irriducibile che resiste all’omologazione standardizzante.

Se da un lato, la psicoanalisi ci chiede di non produrre senso attraverso il sintomo, piuttosto di farne un arte (un saperci fare attraverso), spegnendo in qualche modo la sete di senso di cui il sintomo sembra necessitare, dall’altro le istituzioni, quotidianamente, ci chiedono di fornire dati, resoconti, report, tabelle, grafici e proiezioni.

È una modalità esasperata di difendersi dal reale per mezzo di un simbolico che delira? Ok. Ma quale è la posizione di chi è orientato dalla psicoanalisi?

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Oggi la psicoanalisi è chiamata a rispondere sempre di più a quel malessere generato dall’incapacità che gli strumenti psicodiagnostici mostrano. Il suo compito è quello di sostenere l’istituzione, come se fosse un soggetto nel suo sforzo di confrontarsi con quel vuoto generato dal suo estremo e folle tentativo di riportare tutto il reale a quel simbolico standardizzante. La psicoanalisi può sostenere quel cambiamento che si realizza nella scelta soggettiva di cedere il passo, di rinunciare a quel godimento della mancanza (l’introvabile “schizofrenococco”, il fantomatico gene o quella porzione di cervello che fa da burattinaio) ovvero di smettere di godere della mancanza per aprirsi alla perdita. Dalla mancanza subita si passa alla perdita. E’ proprio in questo punto che l’istituzione ha la possibilità di incontrare qualcosa di creativo. Qualcosa di Nuovo. Ed qui che la psicoanalisi può ritagliarsi un suo posticino. Un luogo di rigorosa osservazione e di continua verifica della teoria, proprio come accade nella pratica scientifica. Un luogo di invenzione e costruzione di nuove soluzioni all’insegna della tensione critica, proprio come accade nel campo dell’arte.

Contributo pubblicato in Pipol News 11 notiziario dell’ EuroFederation of Psychanalyse