L’inferno reale

Fonte: Th. W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino, 1975, pagg. 326-327

Non è piú possibile affermare che l’immutabile sia verità e il mosso apparenza caduca, l’indifferenza reciproca del temporale e delle idee eterne, neppure con il pretesto hegeliano che l’esistenza temporale serva – grazie all’annientamento implicito nel suo concetto – all’eterno, che si presenta nell’eternità dell’annientamento. Uno degli impulsi mistici, secolarizzato nella dialettica, fu la dottrina della rilevanza dell’intramondano, storico per ciò che la metafisica tradizionale privilegiava come trascendenza, o almeno, detto meno gnosticamente e radicalmente, per la posizione della coscienza rispetto ai problemi che il canone filosofico assegnava alla metafisica. L’impressione che, dopo Auschwitz, si ribella ad ogni affermazione di positività dell’esistenza come una consolazione a poco prezzo, ingiustizia nei confronti delle vittime, la resistenza contro la possibilità di spremere dal loro destino un qualche senso per quanto esiguo, ha un suo momento oggettivo dopo eventi che ridicolizzano la costruzione di un senso dell’immanenza, irraggiato dalla trascendenza posta affermativamente. Una tale costruzione affermò la negatività assoluta e collaborò ideologicamente alla sua persistenza, che comunque è realmente implicita nel principio della società esistente fino alla sua autodistruzione. Il terremoto di Lisbona, fu sufficiente per guarire Voltaire dalla teodicea leibniziana, e la catastrofe ancora comprensibile della prima natura fu minima confrontata con la seconda, sociale, che si sottrae all’immaginazione umana, preparando l’inferno reale sulla base della malvagità umana. La capacità alla metafisica è paralizzata perché ciò che è successo ha mandato a pezzi la base dell’unificabilità del pensiero speculativo metafisico con l’esperienza. Ancora una volta trionfa, indicibilmente, il motivo dialettico del rovesciarsi della quantità in qualità. La morte, con l’assassinio burocratico di milioni di persone, è diventata qualcosa che non era mai stata tanto da temere. Non c’è piú alcuna possibilità che essa entri nella vita vissuta dei singoli come un qualcosa che concordi con il suo corso. L’individuo viene spossessato dell’ultima e piú misera cosa che gli era rimasta. Poiché nei campi di concentramento non moriva piú l’individuo, ma l’esemplare, il morire deve attaccarsi anche a quelli sfuggiti a tale misura. Il genocidio è l’integrazione assoluta che si prepara ovunque, dove uomini vengono omogeneizzati, “scafati” – come si dice in gergo militare – finché li si estirpa letteralmente, deviazioni dal concetto della loro completa nullità. Auschwitz conferma la norma filosofica della pura identità come morte.