Il rifiuto del mondo

Fonte: H. Arendt, Vita activa, trad. it. a cura di F. Finzi, Bompiani, Milano, 1964, pagg. 59-62

Storicamente, sappiamo di un solo principio che fu sempre destinato a tenere insieme una comunità di persone che avevano perduto il loro interesse nel mondo comune e non si sentivano piú relazionate e separate da esso. Trovare un legame abbastanza forte tra le persone che potesse sostituire il mondo fu il principale compito politico della prima filosofia cristiana, e fu Agostino che propose di fondare non solo la “fraternità” cristiana, ma tutte le relazioni umane sulla carità. Ma questa carità, benché la sua amondanità corrisponda chiaramente alla generale esperienza umana dell’amore, è nello stesso tempo chiaramente distinta da essa per essere qualcosa che, come il mondo, è tra gli uomini: “Anche i ladri hanno tra di loro (inter se) quello che essi chiamano carità”. Questa sorprendente esemplificazione del principio politico cristiano è di fatto molto ben scelta, perché il legame di carità tra le persone, mentre è incapace di fondare di per sé un dominio pubblico, è perfettamente adeguato al primo principio cristiano della amondanità e si presta perfettamente a portare un gruppo di persone essenzialmente senza-mondo attraverso il mondo, un gruppo di santi o un gruppo di criminali, premesso solo che si capisca che il mondo stesso è condannato e che ogni attività in esso viene intrapresa con la clausola quamdiu mundus durat. Il carattere non-politico, non-pubblico della comunità cristiana si definí presto nell’esigenza di formare un corpus, i cui membri dovessero essere legati gli uni agli altri come fratelli della stessa famiglia. La struttura della vita comunale fu improntata alle relazioni tra i membri di una famiglia perché si sapeva che queste erano non-politiche e anche anti-politiche. Una sfera pubblica non era mai sorta tra i membri di una famiglia, ed era pertanto improbabile che si sviluppasse dalla vita della comunità cristiana se questa vita era retta dal principio di carità e nient’altro. Anche in seguito, come sappiamo dalla storia e dalle regole degli ordini monastici (le sole comunità in cui il principio di carità si sia espresso in una forma politica) il pericolo che le attività intraprese sotto la necessità della vita presente (necessitas vitae praesentis) conducessero da se stesse, per il fatto di essere compiute alla presenza di altri, allo stabilirsi di una specie di contro-mondo, di un dominio pubblico all’interno degli ordini stessi, fu abbastanza grande da richiedere regole e regolamenti aggiuntivi, dei quali il piú importante nel nostro contesto è la proibizione di superare gli altri e dell’orgoglio che ne viene.

La a-mondanità come fenomeno politico è possibile solo in base alla convinzione che il mondo non durerà; a causa di tale convinzione, tuttavia, è quasi inevitabile che la a-mondanità, in una forma o in un’altra, comincerà a dominare la scena politica. Questo accade dopo la caduta dell’Impero Romano e, sebbene per ben altri motivi e sotto forme assai differenti e forse ancor piú disparate, sembra accadere ancora ai giorni nostri. L’astensione cristiana dalle cose mondane non è in nessun modo la sola conclusione che si può trarre dalla convinzione che tutto ciò che è prodotto da mani mortali è mortale come i suoi artifici. Questo, al contrario, può anche intensificare il godimento e la consumazione delle cose del mondo, tutti modi di rapporto in cui il mondo non è primariamente inteso come il koinón, ciò che è comune a tutti. Solo l’esistenza di una sfera pubblica e la susseguente trasformazione del mondo in una comunità di cose che raduna gli uomini e li pone in relazione gli uni con gli altri si fonda interamente sulla permanenza. Se il mondo deve contenere uno spazio pubblico non può essere costruito per una generazione e pianificato per una sola vita; deve trascendere l’arco della vita degli uomini mortali.

Senza questa trascendenza in una immortalità terrestre potenziale, nessuna politica, strettamente parlando, nessun mondo comune e nessun dominio pubblico è possibile. Infatti, diversamente dal bene comune come viene inteso dalla cristianità – la salvazione della propria anima come problema comune a tutti – il mondo comune è ciò in cui noi entriamo quando nasciamo e ciò che lasciamo dietro di noi alla morte. Esso trascende il nostro arco di vita tanto nel passato che nel futuro; esso esisteva prima che noi vi giungessimo e continuerà dopo il nostro breve soggiorno in esso. È ciò che noi abbiamo in comune non solo con quelli che vivono con noi, ma anche con quelli che c’erano prima e con quelli che verranno dopo di noi. Ma un tale mondo comune può superare il ciclo delle generazioni solo nella misura in cui appare in pubblico. È la pubblicità della dimensione pubblica che può assorbire e far risplendere attraverso i secoli qualsiasi cosa gli uomini abbiano voluto salvare dalla rovina naturale del tempo. Per molti secoli prima di noi – ma ora non piú – gli uomini entrarono nel dominio pubblico perché volevano che qualcosa di proprio o qualcosa che avevano in comune con altri fosse piú duraturo della loro vita terrena. (Cosí la sventura della schiavitú consisteva non solo nell’essere privati della libertà e nel rimanere nell’incognito, ma anche nel disagio di questa gente oscura “che essendo ignota sarebbe passata senza lasciar tracce della sua esistenza”). Non c’è forse testimonianza piú luminosa della perdita del dominio pubblico nell’età moderna che la perdita quasi totale di un’autentica ricerca dell’immortalità, perdita in qualche modo oscurata dal simultaneo abbandono del problema metafisico dell’eternità (che, in quanto riguarda i filosofi e la vita contemplativa, deve rimanere estraneo alle nostre considerazioni). Ma tale perdita è provata dal fatto che la lotta per l’immortalità viene solitamente identificata con il vizio privato della vanità. Nell’età moderna, è infatti cosí improbabile che qualcuno aspiri onestamente a un’immortalità terrena che quella identificazione viene giustificata.