Memoria, percezione e realtà (15/40)

Nel Saggio sui dati immediati della coscienza Bergson sottolinea come i dati di coscienza siano qualitativamente eterogenei. Essi si differenziano da ciò che accade fuori.

C’è un dentro e un fuori. È una banalità? No, non lo è.

C’è un mondo esteriore e uno interiore, il primo è “letto” attraverso un processo di spazializzazione, il secondo invece a partire da una dimensione temporale, ecco perché i dati sono immediati, non mediati dalla virtualizzazione dello spazio.

In effetti ci accade di interpretare la realtà interna spazializzandola, ovvero sovrapponendo lo spazio al tempo (al suo scorrere, alla durata).

Quindi, abbiamo un tempo vissuto e un tempo spazializzato.

Per poter cogliere i dati immediati della coscienza per Bergson è necessario depurare i dati della coscienza dalla dimensione spaziale che fa la da padrone proprio perché abbiamo un rapporto privilegiato con il mondo esterno.

Spazializziamo il tempo, il fluire dei nostri stati di coscienza. È possibile non farlo? Bergson risponde affermativamente.

Innanzitutto egli contrappone all’idea di tempo spazializzato quello di durata reale.

I concetti scientifici ritagliano la realtà esterna, la inquadrano e ciò è possibile perché la realtà esterna è nello spazio e per questo può essere ritagliata, può essere divisa in parti separabili.

La memoria e la coscienza per Bergson costituiscono la temporalità autentica, la durata reale che egli, figurativamente, rappresenta con delle metafore, le più famose sono quelle della valanga che si forma a partire da un po’ di neve che si stacca che cadendo porta con sé sempre altra neve, accumulandone altra e crescendo senza perderne neanche un po’, oppure quella del gomitolo che a partire dal filo che si arrotola cresce sempre di più ed il gomitolo in sé raffigura tutto il filo che si è accumulato fin dall’inizio.

Nella memoria, nella coscienza, del tempo autentico della durata reale non si perde mai niente veramente.

La durata reale, il tempo autentico, quello vissuto, si contrappone a quello illusorio che è effetto della virtualizzazione, attraverso la spazializzazione. Il falso sparisce, come un ologramma o una proiezione, la durata dura, permane (come la valanga o il gomitolo).

La durata cresce senza perdere i frammenti iniziali. Lo scorrere reale del tempo implica un continuo processo di accumulazione del passato, non ci sono momenti omogenei, uguali tra loro (ciò che accade nel tempo spazializzato, per esempio nel movimento della lancetta che si sposta da una tacca ad un’altra).

L’omogeneità è un effetto della spazializzazione.

Lo spazio si compone di parti omogenee tra loro, non ci sono delle differenze qualitative.

Proviamo ad osservare un oggetto immobile per un po’ di tempo. Apparentemente nulla cambia, proprio perché i rapporti tra le parti della raffigurazione restano immutate, cioè le porzioni dello spazio osservato restano omogenee. Nonostante ciò, con lo scorrere del tempo reale noteremo dei particolari sempre differenti, se inizialmente coglieremo solo gli aspetti superficiali, dopo un po’ di tempo inizieremo a notare anche i dettagli oppure ci sentiremmo annoiati. L’esperienza, il vissuto, è qualitativamente in movimento, in accrescimento, anche se l’oggetto resta sempre lo stesso, omogeneo nello spazio (altezza, larghezza, prospettiva…).

Il vissuto, la durata reale comporta un accrescimento esperienziale continuo, un accumulo di momenti senza che quelli trascorsi vengano persi.

Il presente implica anche la presenza del passato, il presente è costantemente arricchito dal passato, il secondo istante ha sempre qualcosa in più di quello precedente. Quindi, se fuori niente sembra esser cambiato, dentro, nella coscienza, nella memoria, ogni istante che scorre è accresciuto anche dagli istanti passati e la durata quindi comporta la permanenza del passato.

Il passato si lancia in avanti, in modo che ogni istante prova a spingersi in quello successivo. Il passato si lancia verso il futuro, è una forza creatrice che genera sempre qualcosa di nuovo, a differenza del tempo inautentico, cioè quello spazializzato, che invece si struttura attraverso delle omogeneità.

Bergson interpreta i processi di coscienza come afinalistici e spontanei, come un flusso nel quale noi ritagliamo dei pezzi, dei segmenti, fissando delle omogeneità. In tal senso nel flusso di coscienza non c’è determinismo, tutto spinge, si crea in continuazione, spontaneamente.

È come se ci fossero due livelli diversi della realtà, uno nel quale le cose, gli oggetti si collocano nello spazio omogeneo, geometrico potremmo dire e l’altro dove le cose si collocano nel tempo.

Il primo livello è l’ambito di studio della scienza che ritaglia nello spazio delle porzioni, degli oggetti, delle cose, dove il tempo è in realtà spazio, cioè è una raffigurazione geometrica del flusso temporale autentico. Non a caso la scienza rappresenta il tempo come una linea retta fatta di segmenti.

Tuttavia non dobbiamo dimenticarci che la linea esiste già nella sua globalità, nella sua interezza, e i vari punti di questa linea sono staccati, segmentati, spezzettati, mentre il tempo reale implica che ogni istante sia aggiunto e dunque presente a quello successivo.

Interessante è la posizione di Bergson rispetto alla concezione psicofisiologica della memoria per la quale un danno cerebrale poteva causare la perdita di memoria. Secondo il filosofo francese la memoria non immagazzina i ricordi nel cervello. Quindi, un danno cerebrale, in realtà comprometterebbe soltanto la capacità del cervello di filtrare il materiale della memoria, cioè di recuperare i ricordi secondo un certo schema, una certa virtualizzazione, una certa struttura. Seguendo questa ipotesi, la memoria è dissociata dal cervello: il cervello seleziona certe immagini piuttosto che altre, fa da filtro nel flusso di coscienza. Proviamo a far chiarezza su questo punto attraverso un’altra bella immagine bergsoniana.

Prendiamo un piano ed un cono capovolto che con la punta vi poggia sopra ed immaginiamo che il cono sia la coscienza e il piano la realtà. Il linguaggio, il dire, implica la scelta di un punto, una parola, poi un’altra ed un’altra ancora.

Sono punti di congiunzione con il piano della realtà.

Non posso usare tutte le parole contemporaneamente.

Ogni punto di contatto (punta del cono) della coscienza (cono) con la realtà (piano) rappresenta una fessura, una porta semi aperta attraverso cui la coscienza incontra la realtà.

È ciò di cui parlo in quel momento che implica il nascondimento (ma non la cancellazione o la perdita) di tutto il resto (il cono in quanto tale).

Ritornando alla questione psicofisiologica del danno cerebrale che compromette la memoria, Bergson sostiene che ciò che è danneggiato è la capacità di controllare i ricordi e non i ricordi in quanto tali.

La “mentalizzazione” del mondo, comporta un processo di virtualizzazione basato sulla spazializzazione, sulla geometrizzazione. Lo spazio geometrico implica una serialità, una messa in sequenza, un prima e un poi: punto 1, punto 2, punto 3, punto 4, punto n.

Ci troviamo sempre concentrati su di un punto di focalizzazione: non è possibile avere in mente tutto!

Siamo in contatto con la realtà solo in un punto.

Questa capacità sarebbe garantita dal cervello che, quando è danneggiato, viene persa.

Quindi l’alterazione del nostro rapporto con il mondo esterno a seguito di un danno cerebrale è proprio perché non si riesce più a selezionare l’immensa vastità dei nostri ricordi.

La concezione bergsoniana del tempo quindi implica un processo di arricchimento costante, un arricchimento non più destrutturabile, non più scomponibile, non segmentabile o spezzettabile, proprio come la valanga o il gomitolo: ogni momento implica, si porta dentro, tutti quelli passati.

Il tempo autentico, quello vissuto non è smontabile o rimontabile come il tempo della scienza.