Giove o della “divina bestialità” (parte 5)

<< Tutte le cose piene di Giove >>[1], dice il filosofo napoletano: quindi i segni del cielo, i fulmini, furono i “segni” di Giove. Questi “segni naturali” danno origine alla storia dell’uomo: l’uomo impaurito incominciò a trascinarsi la donna nelle grotte <<e tenerlavi in peritura compagnia di lor vita >>[2], così nacque la “pudicizia”, e proprio il pudore, insieme alla religione, rappresenterà il “cemento” che unisce e che rappresenta l’essenza di una nazione. Il pudore condusse ai <<carnali congiungimenti pudichi>>[3]. << Giove diede il nome al giusto >>[4] garantendo la nascita della morale (non solo poetica), ma la “poesia” è ciò che l’uomo “fa” e soltanto ciò che esso stesso fa, esso stesso può conoscere.

Finti sono anche il “punto” e “l’unità” dirà nel Dell’Antiquissima: << il punto, perché, se lo disegni, cessa d’esser punto; l’unità, perché, se la moltiplichi, non è più unità >>[5]. Nessuno, neanche il fisico può conoscere le cose, nella loro essenza, perché altrimenti diverrebbe un creatore: << ciò è consentito soltanto a Dio, vien negato all’uomo>>[6]. Ciò che l’uomo può fare e che fa naturalmente, e che in un certo qual modo riesce a “creare”, sono i nomi, coi quali viene chiamato ciò che in realtà già sta venendo in luce. Anche la scienza attinge dalla creatività anche se è più difficile rendersene conto. Anche lo scienziato viene folgorato, per dir cosi, dall’entusiasmo creatore che fulmineamente, quasi profeticamente gli dona un’“idea”. Il risultato dell’intuizione viene poi confermato dalla rigorosità delle ‘leggi’ del pensiero << il concepimento creativo cattura la totalità in un pensiero originario o archetipo, l’intelletto che pone differenze e connessioni la scompone nell’ordine normativo dei suoi singoli momenti >>[7].

L’uomo nomina, dà (il) nome alle cose, nelle cose, e tra le cose stesse:

<< Tuttavia  [l’uomo] può ben definire i nomi delle cose, e, a somiglianza di Dio, senza alcun sostrato e come dal nulla, creare quasi fossero cose, il punto, la linea, la superficie >>[8]. L’uomo, quindi, essendo impossibilitato alla verità essenziale la finge con i nomi.

Come il linguaggio geroglifico, quello del mito è un linguaggio in prevalenza “muto”, muto perché organizzato e costituito prevalentemente in base ad immagini, icone delle cose simboli e non solo perché esso è “soprattutto” scritto; cioè esso è muto non perché non “dice” niente, ma piuttosto perché il linguaggio geroglifico << con le sue immagini si pone sullo stesso piano della natura, che con lo spettacolo delle sue infinite forme e colori si dona alla lettura degli uomini >>[9]. Questo linguaggio è ancora lontano dalla unidimensionalità della langue che, proprio secondo il principio della linearità del significante[10], sanciva l’inevitabile unilateralità temporale della lingua, quella che Vico vedrà realizzata nella fase della razionalità dispiegata.

<< I mutoli si spiegavano per atti o corpi c’hanno naturali rapporti all’idea che’essi vogliono significare. Questa degnità è ‘l principio de’ geroglifici, co’ quali si truovano aver parlato tutte le nazioni nella loro prima barbarie >>[11].


[1]“ [] Iovis omnia plena”; Ivi, 379 e seguenti.

[2]Ivi, 504.

[3]Ivi, 505.

[4]Ivi, 516.

[5]G.B. Vico, Dell’antichissima sapienza italica , cit., p. 253.

[6]Ibidem.

[7]W.F.Otto, Il volto degli dèi, cit., p. 34.

[8]Ibidem.

[9] G.Cantelli, Alcune considerazioni sulla tesi vichiana che la prima lingua  dell’umanità è stata parlata dagli dèi, in “Bollettino del Centro di Studi Vichiani”, 1992-93, p.120.

[10]F. de Saussure, Corso di linguistica generale, cit., p. 88 : << il significante, essendo di natura auditiva, si svolge soltanto nel tempo ed ha i caratteri che trae dal tempo: a) rappresenta una estensione, e b) tale estensione è misurabile in una sola dimensione: è una linea >>.

[11]S.N., 225-226.